lunedì, novembre 13, 2006

LA BELLEZZA

e.mail:mosciano.ettore@teletu.it

































La bellezza, cos'è? Idealità solo esteriore, estetica? Quante implicazioni ha il concetto di bellezza?
E’ già bellezza la meditazione sulla bellezza”. (Ettore Mosciàno)
" La verità è sul sentiero della bellezza spirituale e nella ragione che con la scelta morale conduce a quel cammino". (Ettore Mosciàno)

Etica dell’estetica

- “ Il nostro ordine morale (coscienza) può condurci a capire la bellezza”.
- “ L’ordine morale forma la coscienza. La coscienza ha rappresentazione di sé e del mondo nella volontà di conoscere e sapere”.
- “ L’itinerario della conoscenza ha figure spirituali illuminate che hanno esercitato vita pratica e maturato esperienze e riflessioni per lungo tempo”.
- “ La ricerca e il cammino per comprendere la bellezza sono percorsi verso il bene morale individuale e sociale”.
- “ Dal bene morale individuale e sociale si giunge alla soglia del bene supremo e sublime che idealmente gratifica e giustifica la nostra presenza sulla terra e il valore della vita e della nostra esistenza”.
- “ Il dovere ha il suo fondamento e la sua ragione in un ordine morale”.
- “ Importanti non sono il compito e il grado con cui si agisce, ma come si agisce e si rappresenta la nostra azione”.
- “ Il compimento del dovere non è mai un’opera vana”.
(E. Mosciàno)











LA BELLEZZA E LA LIBERTA'

"Nulla accade che non sia insegnamento per capire la bellezza e le scelte che l'essere umano può fare, anche nelle più piccole cose".

"La libertà è la condizione in cui ci si sente soddisfatti del proprio essere "nell'incontrare" la bellezza cercata. Chi non può o non vuole cercare la bellezza non è libero. Colui o coloro che ci danno bellezza ci donano libertà e ragione di vivere".

"L'educazione è bellezza. L'igiene e l'ordine nella persona, le buone maniere della persona sono elementi di bellezza".


"La bellezza è desiderio del proprio completamento e della compensazione interiore, per quanto di possibile noi possiamo fare per vederla, realizzarla ed usufruirne".


"Il morso della tarantola sulla bellezza è un'assenza di morale e di spiritualità; ed allora non c'è limite all'immondo e alle modalità di comunicazione dei linguaggi e dei comportamenti, al punto che né questo né quell'oggetto, pensiero o scrittura o immagine, possono fornire valore certo di virtù, di affezione felice, di armonia e di riferimento sostanziale " .


"Nobiltà d’animo ed eccellenza negli atti e nelle parole; quando queste due qualità fanno parte delle nostre persone esse generano bellezza interiore ed esteriore, togliendo paura, compensando il dolore, provocando la felice armonia"

(E.Mosciano).








BELLEZZA:“Si dice di ciò che, visto o udito, produce nell’animo un sentimento di ammirazione e di piacere disinteressato. Tutto ciò che produce ammirazione estetica”


BELLEZZA: “La qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione".

segnaliamo anche:

DECORO: 1) La risultante di tutti gli elementi che conferiscono all’aspetto o al comportamento l’impronta atta a garantire il rispetto altrui; salvaguardare il decoro dell’edificio, della scuola; andava vestito con decoro. 2) Il sentimento della propria dignità, la coscienza di ciò che si addice o che è dovuto al proprio grado, alla propria funzione o condizione. Decoroso: meritevole di un’attenzione benevola, dignitoso, serio.

DECENZA: Decoro, convenienza, pudore, in armonia con il rispetto dovuto alle esigenze della collettività; vestire, parlare, comportarsi con decenza; offendere la decenza pubblica.

FASCINO/SEDUZIONE: "Potere di attrarre e sedurre esercitato da cose o persone".

MALIA: "Attrazione irresistibile per persone o luoghi".




























LA BELLEZZA, L’ARMONIA SOCIALE, LA POESIA E LA SALUTE MENTALE. “Il paradosso dell’essere, dell’esilio continuo. L’armonia mancante e la salute mentale. Nutrire il giorno”
(per "I Quaderni di MAGMA"- Osservatorio dei Processi Comunicativi" Collana diretta dal sociologo Orazio Maria Valastro. ARACNE Editrice Roma, 2007, euro 10. ISBN 978-88-548-1277-2).


di Ettore Mosciàno

In un mondo di soppraffazione delle immagini e dei linguaggi verbali ed artistici, ciò che l'uomo principalmente avvverte, nella sua essenza di essere persona, è la sovrapposizione, oggi quasi istantanea, dei diversi linguaggi della comunicazione. Se ciò, fino a qualche decennio fa, poteva creare facile entusiasmo, ora, nel "gioco" del relativismo dei valori etici e della strafottenza-sfacciataggine anche nelle alte sfere dell'editoria e delle istituzioni politiche, ci sottomette ad una lacerazione psichica ed al timore-paura di non esserci, di non seguire il mondo, gli avvenimenti. E questa sensazione è sempre più pesante con l'avanzare dell'età.
La centralità di un'analisi qualitativa di questa fenomenologia va ricercata nella virtù educativa dell'armonia. Siamo nel labirinto senza filo della mistificazione.
Tace Ermione, ma il bosco pullula di "voci" di streghe, ranocchi e lupi, non di suoni lievi e cadenzati della natura. Armonia-Ermione ha solo energia umana, non artifizi di motori, per poter consolidare la propria identità e la propira serenità. La salute mentale chiede l'armonia, la bellezza, la poesia come atto quotidiano.

La crisi dei valori nella società attuale è crisi dei valori etici(comportamenti, scelte umane, virtù morali, virtù della vita pratica: moderazione, imparzialità-equità-giustizia, bontà, dovere, carità, coraggio, ecc.) e della educazione estetica, della perdita di umana armonia.
La narrazione poetica, nella sua esposizione tematica e stilistica e nell’interrogazione che ad essa è sottesa, è l’esigenza di collegamento e rivisitazione continua di uno spirito storico e di un vissuto di tradizioni spirituali millenarie (antropologia culturale).
Tale esigenza di poesia, come armonia, lirismo della vita, è la stessa richiesta che sente la persona che viene a trovarsi nel disagio, nella rottura e nella conflittualità degli affetti, nella mancanza di una integrazione sociale, nella necessità accompagnata da timore che si ha col ricovero in strutture sanitarie.
In queste occasioni si ha perdita di salute mentale, di bellezza psichica e spirituale.












Si vive, si corre, si hanno mille incombenze, e tutto si giustifica troppo spesso con doveri da assolvere, a cui le istituzioni pubbliche e private ci chiamano con il lavoro. A ciò si aggiungano le continue sollecitazioni con cui i mezzi di comunicazione ci chiamano a consumare e vivere, vedere, partecipare.
In questa caotica sollecitazione ha facile giuoco il disagio, la salute mentale che perde il suo equilibrio, la sua armonia, la sua bellezza.
Il pensiero e la narrazione, e con essi le azioni, o si fanno con armonia e bellezza o non raggiungono il fine, che è quello di vincere il disagio.
Quali e quanti operatori che lavorano per la salute mentale si offrono a questa analisi?
Come la ricostruzione? Con quali mezzi?
Bene. Se la bellezza è una qualità dell’educazione e dello spirito, il malessere, lo star male, il disagio esistenziale richiedono l’armonia come “ricostituente”. La visione del bello in segni tangibili e l’individuale spiritualità religiosa decidono il nostro stato d’animo e l’armonia corpo-mente-ambiente-società.
L’idea di bellezza che io indico è quella legata a valori di lunga tradizione, essendo opinabili le idee di bellezza legate alle mode estetiche ed al gusto.
Ma, se io trovo, tra le esigenze primarie dell’uomo, il bisogno di una idealità di qualcosa che è altro da sé, dal proprio corpo, comunanza e condivisione di senso della vita, a cui tendere e proiettarsi come valore di un sentimento allargato, come nelle tradizioni religiose, vuol dire che quell’idea di bellezza è più condivisibile di altre.
In questo senso l’uomo contemporaneo è nella sua storia culturale più vera e significativa; cioè quando cura la propria comunanza spirituale e l’educazione culturale per comprenderla.









La narrazione poetica, così come qualsiasi altra narrazione personale intima del proprio vissuto e del proprio disagio, deve fare ed avere considerazione della crescita ottimale di una spiritualità nella bellezza.

Ma la bellezza e l’armonia richiedono lo scarto di ciò che non costruisce continuità e contiguità tra la mia natura spirituale-culturale e quella ambientale; ciò significa scegliere,‘scartando’, le immagini e i pensieri della mia sofferenza, per ritrovare la spiritualità sentita di appartenenza.
Agio e disagio, in cui si vive, richiedono scelta e scarto. Scegliere non è un atto di debolezza dell’uomo, ma consapevolezza ed educazione culturale esplicate attraverso le azioni (il fare) e la comunicazione; questi sono i soli fatti psico-fisici che possano portarmi all’estetica del bello ed a quella armonia che si vuole conquistare o riconquistare.
Chi opera per la bellezza come “ricostituente”?
Le belle immagini della pubblicità patinata non suppliscono certamente la strafottente volgarità dei costumi e dei comportamenti, la superficialità nell’impegno al proprio dovere, specialmente nei luoghi di cura e di protezione della salute.
Ci si accontenta, ma siamo in esilio continuo, tra l’esserci e il non esserci, vincendo giornalmente le irritazioni.
Nella mia esperienza e nella esigenza di costruire o ricostruire, modificando un modo di vivere, per dare un senso di valore alla mia esistenza, ho spesso cercato ed espresso l’armonia attraverso il linguaggio poetico. L’armonia interiore è un’esigenza di bellezza da comunicare e trasmettere agli altri. Ci si educa all’armonia, alla bellezza, alle varie fonti che esprimono bellezza.

Faccio ricorso alla poesia: 


"Il paradosso dell'essere"
di Ettore Mosciàno


Ti ricordo, fratello, in un messaggio

che giungeva via mare, nel vetro di bottiglia;
ed anche virtuoso cercato tra le strade di Atene
dal Diogene irriso, con la lanterna in mano.

Sei ancora lo strumento e il mezzo

già portati in radice e nel tuo gene,
carico dell'avventura che nei mari del pensiero
da eliche proteiche ha generato la parola.

La chimica biologica ha denti nella mente,

e combina sapori dolci e amari degli umori
passati e prossimi del mondo, e di quello a venire.

Non un esilio sacro, né il mito, coglie l'uomo nuovo,

ora che l'attuale celebrato occhio
fissa visioni mosse da altri sugli schermi,
e la misura della nostra riflessione sbocca,
viaggia in dispersione, vincendo irritazioni.
E' il paradosso dell'esilio ambiguo,
dell'esserci non esserci, profanità
che si impone e ci adegua al mondo che cambia,
e fa del sublime inezia, e della notte il giorno,
apre il varco a pensieri impazziti e resistenti: 
il labirinto che non ha più filo, e i mostri
con intrecciati lacci, in mille simbolici linguaggi,
urlano con sarcasmo e con la boria.

Verranno ancora, per aria, terra e fuoco,

acque e lune nuove, schiamazzi, trucchi e giochi:
una cascata di cellule mentali misura il salto e il buio
e il vetro di bottiglia col messaggio incluso
per valori supremi, in disperazione, di quest'uomo parziale
che ha nella contesa la cifra e la radice,
la richiesta di distruggere finzioni e maschere,
(la poesia). 


“Il paradosso nell’esilio ambiguo”, che è distanza e allontanamento, esilio procurato direttamente o indirettamente da altri, è il riflesso e l‘espressione del disagio esistenziale.
Si può restare nel disagio, sottomessi ad una lacerazione psichica della perdita di una consuetudine affettiva familiare, perdita della bellezza sensoriale dell’occhio sulla natura, perdita di un ascolto spirituale collettivo.












La mancanza di partecipazione, la ferita o la frattura, è interruzione avvenuta o avvertita di una tradizione, timore e paura di non esserci nelle attenzioni e negli affetti di qualcuno, di non poter seguire il mondo secondo le proprie aspettative; gli avvenimenti ci sorpassano, siamo ignorati: cioè, non abbiamo valore.
Tutto continua ad accadere e ad essere fatto, senza di noi, nonostante il nostro diverso bisogno di intendere il problema sociale, l’etica dei valori e dei comportamenti, intendere le scelte e le priorità.
E questa sensazione è sempre più pesante con l’avanzare dell’età.
Ciò comporta un ripensamento dell’esistente e dell’inclusione sociale della persona nella sua storia.
Quale storia ci contiene, con forte e sostanziale carica di armonia interiore, se non quella che ci “lega”ai sentimenti sacrali, alla spiritualità religiosa, alle tradizioni religiose, e ai temi dei nostri rapporti con la natura e l’universo? In queste tradizioni troviamo indicazioni, uomini, dottrine, che invitano l’uomo e la collettività a seguire la virtù morale del bene, operare con coscienza, rispettare gli altri, le leggi, avere cura della natura.















Siamo nel labirinto senza filo della mistificazione. Siamo considerati individui da coinvolgere nel marasma e non persone con esigenze collettive armonizzate.

Dove il risveglio, dove e cosa cercare? Quale la forma della transizione del messaggio con l’altro da sé?
Insegnare l’armonia con approccio sistemico, attraverso la parola, la buona educazione, la scelta morale tra le ipotesi possibili delle azioni, dei comportamenti.

Si propongano documentari sulle forme armoniche della natura, sulle figure armoniche dell’arte figurativa, si ascolti l’armonia musicale, la recitazione poetica, si dia la narrazione per immagini di vite edificanti.
“Gli operatori di armonia” dovrebbero trovare una incisiva localizzazione come figure di “distribuzione” di quella bellezza, nella quale loro stessi siano stati formati.
“Distribuire” la bellezza significa tentare il percorso dell’armonia esistenziale, dello stare in famiglia, nella società.

La poesia è uno dei mezzi di comunicazione con cui si cerca di trasmettere una spiritualità costruttiva di armonia con tutta la natura, con se stessi, con gli altri. Se io sono il seme di una natura, devo cercare la bellezza nel luoghi e negli aspetti fenomenici in cui sono connaturato; od anche tra le figure di persone che hanno vissuto e vivono nell’esemplare comportamento con le loro azioni o con la loro manifesta spiritualità. Si legge, si osserva e ci si informa per questo, per l’edificazione morale-etica, con la scelta delle proposte che ci pervengono, per il desiderio di sintetizzare una bellezza interiore.












Nella filosofia classica si discuteva sulla natura del bello, del vero e del bene: le tre idealizzazioni verso le quali avrebbero dovuto concorrere i popoli con le loro azioni, per una ipotetica e possibile armonia di vita e di salute mentale.
Le tre idealizzazioni comportano la richiesta di qualità, che è scelta di azioni e di messaggi di comunicazione.

Lo “star fuori”, l’esilio del poeta e del malato, del disagio psico-fisico, va ricondotto alla soddisfazione di armonia e al desiderio di riaffacciarsi alla Natura, di viaggiare con gli occhi e con la mente negli spazi di appartenenza fisica e spirituale, come lettura di memoria genetica.
Il poeta sfoga il suo desiderio scrivendo, esaltandosi nella sua comunicazione lirica di volontà-immagine spiritualmente costruita. Più che letteratura, il poeta fa un’operazione di ecopsicologia.

Come pensare e a cosa rivolgere il pensiero per avere una vita confortata da armonia e bellezza?
Educare il pensiero e l’esigenza di spiritualità poetica significa educare le azioni, le prospettive di realizzazione della propria vita, consapevolmente, e riproporle agli altri. Nella spiritualità religiosa, ad esempio, come già è nell’etimo della “cosa che lega”, la fede è la qualità-virtù che mi inserisce in una armonia collettiva: valori morali condivisi e trascritti in una dottrina, in cui la salute mentale e spirituale ritrova la bellezza, il sollievo nella lettura di una narrazione. La Bibbia, a detta di molti illustri personaggi dell’arte, della letteratura, delle scienze, è il miglior libro che sia mai stato scritto. Cos’è la spiritualità, se non un’ecopsicologia sublimata?


Ma...chi ha la forza di riproporre una nuiova inclusione dell'etica della bellezza e delle arti nella società attuale? Il drago ha mille teste! Le mistificazioni sono tante.

Anomia e clinica dell’arte.

Nell’arte, la filosofia estetica come conoscenza e percezione del sensibile (effetti prodotti sugli organi di senso) ha sempre più assunto, nel corso dei secoli, valori di una teoria della conoscenza intellettivo-cerebrale, cioè di una filosofia della logica. E’ indiscutibile che a creare questo “equivoco”, ed a perpetuare nella cultura attuale questa sana “ambiguità”, abbiano incisivamente contribuito prima di tutto le poetiche degli artisti, l’iconografia delle loro opere e, successivamente, l’interpretazione in chiave filosofica, sociologica, psicologica da parte dei critici e dei letterati in genere. Come nelle più alte sfere delle filosofie esoteriche, l’accidentalità della critica estetica giunta al culmine della sua crisi espressiva, crisi attuale, crisi del fantomatico o dell’apparente morte dell’arte, mostra il segno di una poco convincente e probabile rinascita come “logica dei fenomeni”. “Logica della energia intellettiva-trasformatrice” con la quale tutto è possibile, in arte, poiché tutto ciò che accade fa parte di questa umanità. L’arte, allora, diventa universale perché “descrivendo” la fenomenologia “tocca” il complesso delle problematiche umane.L’imitazione delle forme, l’immaginazione, la trasposizione, l’astrazione, l’informe, la concretizzazione oggettuale (body art, land art, pop art, ecc.) creano il complesso di quei fenomeni espressivi che hanno spalancato alla “clinica dell’arte”. La clinica, in questo senso, acquista valore di laboratorio di probabile diagnosi e di maneggio sull’opera d’arte.Accade, però, oggi, che nella produzione clinica e nel maneggio non si trovi memoria o che vi sia un eccesso di codici memoriali, per cui la dichiarazione intenzionale dell’artista e l’interpretazione critica siano sempre più improbabili, per identità non completamente definibili e delimitabili col tempo e, quindi, l’opera rimane aperta a più diagnosi, in quanto senza nominatività e nomenclatura, senza regole e senza legge; cioè è nell’anomia: prodotto che resta nella clinica, fantasma irriverente, preoccupante.Nessuno ha l’ardire di “ridefinire” l’arte. La descrizione fenomenologia dell’arte nella clinica non ha più virtù canoniche e, d’altra parte, le enunciazioni fenomenologiche sono strade irte di nuovi pericoli, per il loro riferimento socio-culturale onnicomprensivo, sia da parte degli artisti sia da quella dei critici e dei filosofi. La clinica è invasa da casi di (apparente) ipotetica patologia. Questi casi “si esprimono” con uno stile; lo stile è maniera e tecnica dell’espressione clinica.I prodotti dell’espressione clinica hanno, tuttavia, forme diverse: la figurazione sensibile, la trasfigurazione del sensibile (metafisica), la forma di una pura fantasia (l’informe) (forma non ancora codificata: ma fino a quando? Il matematico francese Mandelbrot con lo studio dei frattali – le forme rotte – che non si rifà più alla geometria euclidea, porta già avanti da qualche anno una teoria sullo studio dell’informe) ed ancora la forma oggettuale in situazione o in azione (installazioni e comportamenti).Intendiamoci, nella clinica non si parla sempre la stessa lingua, anzi, per molti “casi” il linguaggio è assente: la parola della forma, per molti artisti delle ultime generazioni, è un’espressione sterile.L’interpretazione cronologico-storica delle espressioni artistiche qui non interessa; essa non è che uno dei tanti modi, e neppure il più valido, per comprendere l’arte. Non c’è nessun vantaggio nel restare confinati in cicli e settori culturali che si succedono nel tempo (come in trance o in sogno) durante l’analisi fenomenologica. Si vive solo simultaneamente su piani paralleli in tutti gli schemi culturali, pur restando coscienti.

Come “nutrire” il giorno nel disagio?

NUTRIRE IL GIORNO 

Nutrire il giorno 

dell’antico che non ha traguardo. 

Dalla terra e dal cielo 

penetrate parole nella nostra pelle. 

Miracoli per tutti i sogni e gli incubi: 

il passato, l’avventura dei sensi 
le risposte alle domande 
della macchia chiara sul muro 
e del rimosso quadro. 

Fragile e vaga, e oscillante 

è la ragione, e incerta misura ogni giorno 
di ciò che accade. 

Il giorno al giorno messaggio 

ogni stagione propizia alle ali 
ogni occhio sulla radiosa bellezza. 

Tutti i fiumi specchiano la luce. 

Tutti i fiumi nell’uomo, di grado a loro modo. 

Lo spazio aperto e il mutamento 

con ogni singolo pensiero risanando.

La verità è sul sentiero della bellezza spirituale e nella ragione che, con la scelta morale, conduce a quel cammino.
La poesia

La poesia come racconto, ma anche mezzo per richiamare la spiritualità, “l’altrove che arricchisce questo momento” e che mantiene e continua una tradizione culturale e spirituale di quanti ci hanno preceduto nella storia della letteratura e delle arti.
Il poeta è colui che interpreta l’anima culturale della narrazione esistenziale e del suo intreccio, delle sue varie espressioni nel tempo; egli inventa l’uomo interiore e lo documenta: è la persona che sta nell’antropologia culturale e biologica, è l’autentica creatura della storia che tiene lo sguardo sulla realtà della vita. A questa vita, ed alla natura, il poeta ricambia il dono dell’esservi dentro, con la sua scrittura.
Nei sentimenti dell’uomo, e nella sua esigenza di bellezza, è il desiderio ragionevole di interpretare ciò che accade, interiorizzandolo, per dare valore alla nostra natura nella comunità e sentirci partecipi.
Dove non vi è poesia, non vi è bellezza psichica. Il poeta scrive per far capire, far sentire, vedere, percepire altro, al di là dei frettolosi spostamenti nella vita quotidiana.
Chi è il poeta? Un figlio del suo tempo: non un saggio, né un filosofo.
Nella natura dell’universo, solo l’uomo può esprimere il suo pensiero. La poesia è pensiero manifestato attraverso la scrittura, la lingua, l’epifania creativa della propria lingua. La natura accoglie gli uomini e li colloca, manifesta i suoi orrori e la sua bellezza, appare, diviene, manda messaggi: l’uomo interpreta e vede le trasformazioni del creato, estrapola il linguaggio di una natura muta che l’invita al pensiero, alla descrizione, alla poesia..
L’oralità è acqua, fiume, mare, oceano, aria, fuoco, terra, informi. La forma della scrittura poetica è l’identità più alta del linguaggio e della letteratura ed appartiene all’uomo, al suo pensare, alla sua scrittura.
Cosa scrive l’uomo? Come scrive la sua poesia? Qual è la forma della poesia?
La poesia è nell’idea che nasce e nell’immagine che il pensiero delinea, attraverso un linguaggio appropriato, svelando ed ampliando, con la sua testimonianza, ciò che era assente e che, nato dal singolo uomo, può essere trasferito ad altri per evocare in essi nuove e continue percezioni, renderlo partecipe di un concetto di bellezza o di denuncia di pericolo a danno della bellezza.

L’attività poetica è un modo di ridare armonia alle umane sofferenze, alle distorsioni del linguaggio, alla sua manipolazione e mistificazione, alla prevaricazione-induzione alla passività. La poesia, quando è vera poesia, e non produzione spuria di parole assemblate, sublima il linguaggio e la comunicazione; i concetti assumono nuovo valore nella relazione con il privato che ne vuole essere coinvolto per scelta e sensibilità; dunque, la parola poetica richiede attenzione, concentrazione, riflessione: una proiezione ed una introspezione, un trovarsi nella scrittura, nel sentirsi uniti in un appagamento, in una ricerca di come si vuol essere vicino agli altri, con il polso, il sangue ed i muscoli.

La lingua poetica pone un margine alla brutalità e alla volgarità del quotidiano: una volontà purificatrice, la non accettazione del divenire nella consuetudine e nella superficialità; essa è la spinta all’approfondimento della conoscenza attraverso un risveglio dei sensi, nel non essere sempre e soltanto nell’ordinario, nella conoscenza casuale e svogliata.












E’ la nostra voluta cecità (svogliatezza, faciloneria, disinteresse, mancanza di tempo) a non voler vedere personaggi di cui conosciamo il notevole spessore culturale e spirituale, e che ci hanno indicato attraverso la loro vita la via da seguire e gli interessi da coltivare. Quanti esempi da illustrare!

Leonardo da Vinci fu detto dal Vasari “una incarnazione della divinità sulla terra”; egli è veramente uno degli uomini più rappresentativi dell’umanità, riconosciuto a tutto tondo nella sua genialità tecnico-scientifica e nell’eccellenza dell’arte pittorica, nella saggezza morale ed estetica. Precorrendo la rivoluzione galileiana, Leonardo spaziò per i regni della natura, interpretando leggi e segreti sui quali oggi poggia tutta la scienza moderna. Nel complesso delle osservazioni e delle esperienze, Leonardo passa in rassegna tutto il mondo della scienza e delle sue applicazioni: l’ottica, la meccanica, la termologia, il magnetismo, l’acustica, l’idrodinamica, l’architettura, l’ingegneria, la geologia, la meteorologia, la botanica l’anatomia umana, il volo degli uccelli, il moto delle onde, macchine e utensili di ogni importanza e di ogni specie. Non mancano nelle sue opere osservazioni psicologiche e morali.
Un giorno un allievo del maestro pose questa domanda:”Messer Leonardo, molti ti accusano, e noi tuoi discepoli con te, di andar troppo raramente in chiesa e di lavorare nei giorni festivi come in tutti gli altri giorni della settimana”; e Leonardo:”Lasciate che i bigotti dicano quel che vogliono. Non turbate il vostro cuore, amici miei. Lo studio dei fenomeni naturali è cosa gradita al Signore: è anch’esso una forma di preghiera. Studiando le leggi naturali, noi al tempo stesso glorifichiamo il Primo Inventore, il Creatore dell’universo, impariamo ad amarlo, poiché il grande amore verso il Signore promana dalla grande conoscenza. Chi poco sa, poco ama. E se tu ami il Creatore per le grazie temporali che ti aspetti da Lui, e non per la Sua eterna bontà e per la Sua forza, allora sei simile al cane, il quale dimena la coda e lecca le mani del padrone nella speranza d’un ghiotto bocconcino. Pensa quanto più grande sarebbe l’affetto del cane per il suo padrone, s’egli potesse capirne l’anima e lo spirito! Ricordate, ragazzi miei, che l’amore è figlio della conoscenza: quanto più è profonda la conoscenza, tanto più è appassionato l’amore”.

Non si pensi che Leonardo amasse poco gli animali; egli fu un accanito vegetariano ed amante anche del più piccolo degli animali; verso di essi, ed è testimoniato, si comportava alla maniera di S. Francesco d’Assisi!
Nella pittura, Leonardo immerge la figura umana, soprattutto donne-madri-madonne nell’atmosfera di ombra e di mistero, con una tecnica in cui il paesaggio raffigurato acquista un’importanza nuova nel Rinascimento. La rigidità di linee che era nella precedente scuola pittorica fiorentina delle colonne e degli archi, con Leonardo si trasforma nell’indicazione di immersione nella bellezza avvolgente della natura, togliendo la pittura dalla rappresentazione del mondo degli eroi e avviandola ad una più vasta visione di un rapporto spirituale dell’essere umano con il creato, con l’osservazione della bellezza e la riflessione sulla bellezza.
Un uomo moderno, Einstein, ha detto:
“L’opinione corrente che io sia un ateo si basa su un grosso errore. Chi la deduce dalle mie teorie scientifiche, non le ha comprese. La mia religione consiste nell’umile adorazione di un Essere infinito spirituale di natura superiore che rivela se stesso nei piccoli particolari che noi possiamo percepire con i nostri sensi deboli e insufficienti. La scienza senza la religione è paralitica; la religione senza la scienza è cieca. Senza la religione l’umanità si troverebbe oggi ancora allo stato di barbarie…E’ stata la religione che ha permesso all’umanità di progredire in tutti i campi. Credo in un Dio personale, e posso dire con coscienza che nella mia vita non ho mai accondisceso ad una concezione ateistica”.
Ancora Einstein: ”Solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana; e non sono sicuro della prima”.
Un filosofo russo, Nikolaj Berdjaev (1874-1948), può aiutarci a comprendere e chiarire la situazione esistenziale contemporanea; egli, riferendosi al positivismo e al materialismo sosteneva che essi avrebbero portato al “suicidio intellettuale”, e che era necessario “un pensiero metafisico ed etico” e leggi etiche e religiose, che avrebbero apportato cambiamenti alla mente e alla comprensione dell’uomo, all’idea cristiana della personalità come valore eterno e come prerequisito necessario per ogni attività politica e sociale. L’oggettivazione, la mente oggettiva, secondo Berdjaev, separa il mondo in Soggetto e Oggetto, Io e Altri, Spirito e Natura, e così via; e questo comporta sia vantaggi che inconvenienti.
Berdjaev: “La verità è il ridestarsi dello spirito nell’uomo, la sua comunione con lo spirito. La verità non è del mondo, ma dello spirito. L’esperienza spirituale è la realtà più alta nella vita dell’uomo: in essa il divino non è dimostrato, ma si mostra di per sé. La realtà dello spirito è testimoniata dall’intera esperienza dell’umanità: rifiutarla significa essere ciechi e sordi di fronte alla realtà, significa essere incapaci di distinguere le qualità dell’essere o di descrivere ciò che si distingue. Il mondo spirituale è tanto reale quanto quello delle cose naturali. Questa realtà non si può dimostrare, ma è percepita da coloro che riescono a distinguere le qualità”.

Ciò che sappiamo e che ci ha portato il bene, le virtù, la bellezza, è ciò che possiamo indicare agli altri: creare nel bene, nella virtù, nella bellezza.
E’ indiscutibile che con l’avvento del cristianesimo si costituiscano due ere, il prima e dopo la venuta di Cristo, e che vi sia stato il passaggio ad una nuova forma etica di civiltà: quella in cui la persona, qualsiasi persona, la donna mai prima sufficientemente considerata, diventa un elemento essenziale e spirituale della società; non più schiavi e differenziazioni, secondo il grado di istruzione o di appartenenza a particolari categorie professionali, come nell’antica Grecia, in Egitto e a Roma.
Il cristianesimo riscatta l’uomo nella sua completezza, attraverso la concezione spirituale del rispetto, dell’armonia, della solidarietà per i più deboli. La persona, e la personalizzazione, entrano in un processo che sta nel mondo, che utilizza le forze sue e della natura, aprendosi agli altri.
La poesia, secondo il suo significato etimologico, viene dal greco ‘poiêin’, ‘fare’; “fare con la poesia”, quindi, come la vita e le opere dei personaggi già citati; ma molti altri ve ne sono.
Un solo bene supremo, da idealizzare, elimina la delusione in una aspettativa di vita che può svolgersi tra poesia e tragedia. In questo binomio tra bene e male si manifesta la sacralità nella storia dell’uomo. E’ in questa sottesa insistenza, conscia e inconscia, alla sacralità ancestrale degli atti, che il pensiero dell’uomo svolge il suo percorso fino ai nostri giorni. L’uomo deve scegliere il suo cammino con l’educazione alla spiritualità.













La verità e la giustizia, attese dall’equità delle leggi e della politica, sono state dolenti e cocenti delusioni continue in tutta l’umanità, perché il potere politico, anche quando è rappresentativo di un ideale di democrazia, dilaga nello sproloquio, nella disattenzione, nelle mancanze, nel presenzialismo, nel personalismo, nel relativismo etico, nell’orientamento di correnti ideologiche di partito, nell’arroganza e nel disinteresse per molti aspetti della vita delle persone; e quando le decisioni politiche sembrano aprirsi a tutte le istanze possibili, per accontentare un po’ tutti, nel nome abusato della libertà, si finisce nel marasma in cui tutto è possibile: offese pubbliche ai capi religiosi, ai presidenti di parlamento e della repubblica, adozioni di bimbi in coppie omologhe, inseminazioni da partner supplenti, soppressione dei bimbi indesiderati, e tant’altro.
Thomas Stearn Eliot ha scritto, molti decenni fa: “La nostra società ha una cultura negativa, ma in ciò che essa ha di positivo rimane cristiana”.

In queste tradizioni religiose, e nel pensiero comune nella spiritualità, io vedo la raffigurazione e la possibile scelta di valori da condividere per un percorso etico-morale più consono alle nostre attuali esigenze.

Lo studio e la scelta fatta nell’ambito di queste tradizioni è dovere educativo per affrontare il significato e lo scopo della nostra esistenza, e sapere su quali basi, e su quale massa di informazioni, si possa lavorare per raggiungere lo scopo di una armonia condivisa, la nostra salute mentale.

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COS'E' LA BELLEZZA?

La nozione di bellezza (o di bello) ha interessato i filosofi fin dalla più remota antichità; cos’è la bellezza? Esiste indipendentemente da noi, oppure non è se non nel nostro spirito? A tali domande essi hanno dato risposte differenti, a seconda che fossero realisti o idealisti, adottando in sostanza lo stesso atteggiamento assunto di fronte al problema del vero e del bene.

Per Platone, “realista delle idee”, la bellezza esiste in sé, indipendentemente dal nostro spirito, in un mondo puramente “intelligibile” più perfetto del mondo di quaggiù e più reale. Le bellezze sensibili che ammiriamo sulla terra non sono che imitazioni imperfette della bellezza intelligibile, che il nostro animo conoscerà dopo la morte. (Vedi “ Il Simposio”).
Per il neoplatonico Plotino la bellezza si confonde con la verità e con Dio.
Per Kant la bellezza non esiste al di fuori di noi, ma risiede nell’accordo che si realizza sul piano del sentimento fra le manifestazioni determinate dalla natura e la nostra libera soggettività, come “ciò che piace universalmente e senza concetto”, in una “finalità senza fine”,con un piacere disinteressato.
I sociologi insistono sulla relatività del bello secondo i luoghi e i tempi; per quanto riguarda la nostra epoca, si può parlare di un realismo del bello (l’arte considerata come espressione di realtà concrete quali la natura e la società, e come una trasformazione permanente dell’ideale nel reale, attraverso la quale il bello progredisce di giorno in giorno) e di un idealismo del bello (arte astratta, ovvero non figurativa).











ESTETICA
Ciò che concerne la percezione, il sentire. L’indagine filosofica avente per oggetto il bello e l’arte.

Una storia dell’estetica dovrebbe prendere le mosse da Platone, del quale è nota la distinzione fra l’arte e il bello. Il bello di natura, come presenza visibile dell’idea, è un valido punto d’appoggio per l’anima desiderosa di tornare al mondo dei valori eterni, che le è proprio. L’arte, invece, come imitazione della natura, che è a sua volta imitazione dell’idea, è un’esperienza che allontana l’uomo dal mondo ideale e come tale è bandita dalla “Repubblica”.
Aristotele riprende il concetto dell’arte come imitazione (gr. ‘mímēsis’) della natura ma attribuendo alla imitazione una funzione idealizzante e purificatrice (lo spettacolo tragico in teatro opera una catarsi, o purificazione dalle passioni nell’animo dello spettatore), assegna all’arte una funzione educatrice positiva. Poiché d’altra parte nell’opera di Aristotele dedicata al tema dell’arte (“La poetica”, di cui è sopravvissuto un ampio frammento) erano contenute formule e osservazioni che potevano anche essere interpretate in senso normativo (per es. gli accenni alle tre “unità”), l’estetica classicista assunse più tardi, sulla falsariga di Aristotele ma anche sotto l’influenza delle preoccupazioni religiose, alcuni caratteri tipici, che possono essere così riassunti :
1- il concetto dell’arte come imitazione della natura;
2- il concetto dell’arte come costruzione intellettuale operata in base a regole ben definite;
3- il concetto dell’arte come portatrice di verità razionali rivestite di forme atte a renderle gradevoli.

Giambattista VICO. La più radicale revisione di queste posizioni fu compiuta da Giambattista Vico, nella linea di quel ripensamento settecentesco del problema dell’arte, del quale si è fatto cenno a proposito dell’ introduzione del concetto di gusto. Per il Vico l’arte è prodotto della fantasia, la poesia è il naturale linguaggio dell’umanità nella fase “eroica”, i grandi poeti sono “sublimi fanciulli”; nella poesia non è contenuta una “sapienza riposta”, cioè una “metafisica ragionata”, ma se mai una metafisica “sentita e immaginata”.

Il significato corrente di “scienza del bello e dell’arte” è stato attribuito al termine ‘estetica’ dal filosofo leibniziano tedesco Baumgarten nell’opera intitolata appunto “Aesthetica”. Tuttavia Kant usa ancora la parola sia nel senso più tradizionale e generico di dottrina della percezione (come nella “Critica della ragione pura”), sia nel senso implicante ormai un riferimento preciso al bello e all’arte (come nella “Critica del giudizio”).
L’identificazione del bello e dell’arte, implicata nella definizione sopra data, è un risultato dell’estetica romantica.
Nell’antichità classica il bello era distinto dall’arte, essendo il primo considerato come un fatto della natura, del tutto indipendente dall’operosità dell’uomo, mentre la seconda, come momento dell’attività produttiva dell’uomo, era ritenuta oggetto della scienza poetica (gr. "poiêin", "fare", "produrre").
La tendenza all’unificazione del bello e dell’arte ha inizio nel Settecento attraverso l’affermarsi del concetto di “gusto”, inteso come capacità di distinguere il bello sia nella natura sia nell’arte. L’introduzione della nozione di gusto è stata peraltro molto di più di una semplice innovazione terminologica. Infatti, l’affermazione che il bello è percepito e valutato da una sorta di funzione prefazionale, se non proprio irrazionale, ha segnato il tramonto, almeno fino all’età contemporanea, delle estetiche intellettualistiche, cioè dei tentativi di costituire razionalmente il canone di bellezza e della perfezione artistica. Tuttavia tale risultato, che ha così profondamente influenzato l’estetica romantica, non ha costituito una conquista definitiva, se si considera la forza di suggestione delle estetiche intellettualistiche contemporanee, dalla concezione dell’arte-architettura di Paul Valéry, al recupero dell’estetica cinquecentesca operato da Galvano Della Volpe, alle varie teorizzazioni nate sul terreno della cosiddetta “arte astratta”.












LA POESIA E LA BELLEZZA: "Nutrire il giorno - Poesia nel quotidiano" di Ettore Mosciàno.
La verità è sul sentiero della bellezza spirituale e nella ragione che, con la scelta morale, conduce a quel cammino.

La poesia è “l’altrove che arricchisce questo momento” e mantiene e continua una tradizione culturale e spirituale di quanti ci hanno preceduto nella storia della letteratura e delle arti.
Il poeta è colui che interpreta l’anima culturale della narrazione esistenziale e del suo intreccio, delle sue varie espressioni nel tempo; egli inventa l’uomo interiore e lo documenta: è la persona che sta nell’antropologia culturale e biologica, è l’autentica creatura della storia che tiene lo sguardo sulla realtà della vita. A questa vita, ed alla natura, il poeta ricambia il dono dell’esservi dentro, con la sua scrittura.
Nei sentimenti dell’uomo, e nella sua esigenza di bellezza, è il desiderio ragionevole di interpretare ciò che accade, interiorizzandolo, per dare valore alla nostra natura nella comunità e testimoniarla. Il poeta scrive per far capire, far sentire, vedere, percepire altro, al di là dei frettolosi spostamenti nella vita quotidiana.
Chi è il poeta? Un figlio del suo tempo: non un saggio, né un filosofo.
Nella natura dell’universo, solo l’uomo può esprimere il suo pensiero. La poesia è pensiero manifestato attraverso la scrittura, la lingua, l’epifania creativa della propria lingua. La natura accoglie gli uomini e li colloca, manifesta i suoi orrori e la sua bellezza, appare, diviene, manda messaggi: l’uomo interpreta e vede le trasformazioni del creato, estrapola il linguaggio di una natura muta che l’invita al pensiero, alla descrizione, alla poesia. E’ nel pensiero scritto che bisogna creare la poesia. L’oralità è acqua, fiume, mare, oceano, aria, fuoco, terra, informi. La forma della scrittura poetica è l’identità più alta del linguaggio e della letteratura ed appartiene all’uomo, al suo pensare, alla sua scrittura.
Cosa scrive l’uomo? Come scrive la sua poesia? Qual è la forma della poesia?
La poesia è nell’idea che nasce e nell’immagine che il pensiero delinea, attraverso un linguaggio appropriato, svelando ed ampliando, con la sua testimonianza, ciò che era assente e che, nato dal singolo uomo, può essere trasferito ad altri per evocare in essi nuove e continue percezioni, renderlo partecipe di un concetto di bellezza o di denuncia di pericolo a danno della bellezza.

La poesia è un “clima”dell’uomo, uno stato dell’essere. La natura ci offre il necessario per essere poeti e la storia ci ha raccontato e racconta i comportamenti dell’uomo. Il nostro tempo è percezione e geografia della mente, incanto e mistero, intreccio tra il piacere delle sensazioni e i timori esistenziali: rapporti intimi tra i fenomeni della natura, gli accadimenti e i laboratori segreti dell’intelligenza. E’ come voler entrare oltre la realtà apparente, oltre l’oggetto e la cosa in sé, e sviluppare un sentimento per esaltare una visione, una intuizione, o placare un’irrequietezza per esigenze più significative, espressioni moltiplicate dai sensi e non solo percorse da logiche correnti.
La realtà apparente esige continuamente più profondi significati, esami di interiorizzazione della “cosa” e del senso che “la cosa” ha nel contesto in cui esiste e in cui noi ora esistiamo, ma anche la proiezione che riusciamo a cogliere di significati di un insieme di tutte le “cose”, la loro concatenazione, le armonie e le disarmonie, oltre la nostra finitezza.
Una ricreazione della parola e del linguaggio ci muove, nella paura che ci si possa consumare nell’indifferenza. Un curioso lampeggiamento del primo verso e l’immaginazione e i dati dell’esperienza elaborano l’idea, le curiose capacità metaforiche, accompagnate dall’intuizione delle somiglianze. I giochi di parole, i ritmi ed i suoni nascono da impulsi e proiezioni, lente e meditate riflessioni.
Quella del poeta è un’attitudine e un’arte, una sensibilità nel percepire e nel vedere; ed è anche una scelta etica del linguaggio, della forma e del contenuto, del dare la comunicazione con modalità e suggerimenti per un’esistenza positiva, nonostante i fenomeni alienanti e le sventure nella società moderna.
L’attività poetica è un modo di ridare armonia alle umane sofferenze, alle distorsioni del linguaggio, alla sua manipolazione e mistificazione, alla prevaricazione-induzione alla passività. La poesia, quando è vera poesia, e non produzione spuria di parole assemblate, sublima il linguaggio e la comunicazione; i concetti assumono nuovo valore nella relazione con il privato che ne vuole essere coinvolto per scelta e sensibilità; dunque, la parola poetica richiede attenzione, concentrazione, riflessione: una proiezione ed una introspezione, un trovarsi nella scrittura, nel sentirsi uniti in un appagamento, in una ricerca di come si vuol essere vicino agli altri, con il polso, il sangue ed i muscoli.

La lingua poetica pone un margine alla brutalità e alla volgarità del quotidiano: una volontà purificatrice, la non accettazione del divenire nella consuetudine e nella superficialità; essa è la spinta all’approfondimento della conoscenza attraverso un risveglio dei sensi, nel non essere sempre e soltanto nell’ordinario, nella conoscenza casuale e svogliata.

Vi è distinzione utile, tra linguaggio comune e poesia, nel momento in cui la poesia determina una volontà nuova e diversa nel comunicare ad altri un proprio mondo, un proprio modo di vedere il significato e il percorso tracciato dagli uomini nella loro lunga storia; un valore antropologico di chi vuole immettersi dentro questo tracciato e coglierne le variazioni nelle espressioni del pensiero e delle arti che ci hanno caratterizzato per millenni, nelle tragiche lotte e nelle antinomie. Dobbiamo solo ritrovarci nella forza e nella consapevolezza di corpi e menti immersi anche in ordinaria e straordinaria bellezza, armonia, costruzioni, nature e sentimenti espressi con le migliori energie creatrici. Di tutto questo l’uomo ha visione e indagine, percezione umana inscindibile dal concreto e dall’oggettivo.

La poesia è una “frontiera mobile” che trattiene la sregolatezza sciolta del linguaggio ordinario, dei neologismi extraterritoriali, dei modi di dire, e nello stesso tempo amplia gli orizzonti dei suoi modi espressivi, li rinnova nelle visioni, accentua e mette a fuoco le nuove dottrine scientifiche e filosofiche perché l’uomo abbia materia di riflessione, di sostegno psicologico e spirituale tra le contraddizioni e la marea dei messaggi. Allora, la poesia si fa progetto umano di una “estetica” del dire, del comunicare, in cui si coniuga tutta l’attenzione per far emergere la forza vitale che l’uomo ha in sé, nella sua spiritualità, in un adattamento ai mutamenti dell’ambiente, ai nuovi spazi geografici, alle altre culture.

La forma della poesia si adegua parzialmente ai tempi delle espressioni linguistiche, le avviva e le tiene nella lingua meritevole di ufficialità e di rappresentanza nazionale, nella educazione pertinente. I contenuti possono avere i loro ricorsi storici, in fondo la vita dell’uomo presenta sempre le sue finalità nell’arco di un vissuto determinato dal tempo e da uno spazio, ma sono le sensazioni percepite in modo diverso, in questo tempo e questo spazio, che danno forma nuova ai contenuti della poesia.

La sensibilità poetica ha sempre nuove epifanie, è costante nel raccogliere sfide ed affermare il suo valore. La materialità ha anche il suo aspetto sottile che solo il poeta sa cogliere e descrivere con nuove immagini e proporzioni, nel demistificarla. E’ qui la pacifica lotta sociale e letteraria.
La visione poetica accresce la sostanza della materia, la fruttifica di un senso, ne esalta i “sapori”, allarga gli orizzonti spaziali, consuma il suo cero nella bellezza, solleva l’ansia di una spiritualità terrestre alle armonie riposte in ognuno di noi e le accresce, le leviga nei contenuti, nelle problematiche.
La velocità e il progresso tecnologico scientifico sono fattori responsabili di innovativi cambiamenti nella percezione dei messaggi e nella conoscenza; anche la poesia, come tutte le altre arti, si arricchisce di nuove potenzialità e terminologie, amplia il suo panorama d’ispezione e s’innova di domande, s’interroga sull’essere del nostro tempo, rispetto alla primordiale e complessa significanza di sistemi e di assoluti.
Dovere del poeta è cogliere gli effettivi valori di questi cambiamenti o denunciare il caos, richiamare l’attenzione ad un umanesimo più consono e collocabile nel quotidiano e nei valori della persona e del tempo presente, accompagnando l’uomo tra la morte e il linguaggio.


NUTRIRE IL GIORNO
Nutrire il giorno
dell’antico che non ha traguardo.

Dalla terra e dal cielo
penetrate parole nella nostra pelle.

Miracoli per tutti i sogni e gli incubi:
il passato, l’avventura dei sensi
le risposte alle domande
della macchia chiara sul muro
e del rimosso quadro.

Fragile e vaga, e oscillante
è la ragione, e incerta misura ogni giorno
di ciò che accade.

Il giorno al giorno messaggio
ogni stagione propizia alle ali
ogni occhio sulla radiosa bellezza.

Tutti i fiumi specchiano la luce.
Tutti i fiumi nell'uomo, di grado a loro modo.

Lo spazio aperto e il mutamento
con ogni singolo pensiero risanando.


Roma, novembre 2005


Altre poesie di Ettore Mosciàno:

http://mosciano-ettore.blogspot.com/2006/05/poesia-e-fluttuanza-le-poesie-di.html











da "LIFE Gate magazine" - rivista di ecocultura n° 30, sett.-ott. 2006

LA BELLEZZA DELLE IDEE DI MARCELLA DANON












Marcella Danon è psicologa, scrittrice, direttrice della "Scuola di ecopsicologia", redattrice della rivista “LIFE Gate magazine”, diretta da Simona Roveda, dove tutto ciò che si scrive (salute, ambiente, alimentazione, energie, cultura) ha una consistente, ragionata e documentata ‘allure’ di virtù e di esperienza.
Nelle pagine del n° 30 di “LIFE GATE magazine”, del settembre-ottobre del 2006, la dott.ssa Marcella Danon esprime “Il valore delle piccole cose” nella concretezza delle azioni quotidiane, come in simile occasione:
“Vale più una mano che tiene aperta la porta allo sconosciuto che sta passando pieno di pacchi che mille parole roboanti sull’amore per il prossimo a cui fa seguito un completo disinteresse per le persone più vicine”.

Ho chiesto alla Dott.ssa Danon di riportare diverse sue annotazioni, qui nel blog “Costruttori di bellezza”, poiché ritengo che siano dei piccoli capolavori di riflessione ed espressione, amore per la vita e per il prossimo. Lei scrive, a proposito di :









Indagine sullo scopo della vita: “Non si tratta di trovare risposte, quanto di porsi domande, di uscire dall’indifferenza, dalla estenuante sensazione che tutto ormai sia noto e scontato, di superare la passiva accettazione di visioni della vita indotte da altri – televisione, pubblicità, moda – per ritrovare la capacità di chiedersi “che cosa è davvero importante nella vita”, provando a rispondersi in prima persona, valutando autonomamente idee e stili di vita, confrontando diverse proposte e scegliendo quello che davvero ci risuona dentro, con autenticità”.


Riaprire gli occhi sul mondo: “Si acquista così la capacità di vedere la realtà nella sua unicità, momento per momento, e di provare stupore e meraviglia per il miracolo quotidiano dell’aver un tetto sulla testa, una tavola sempre imbandita, libertà di parola, salvaguardia dei diritti fondamentali…o anche semplicemente di avere gli occhi per vedere il colore dei fiori, la pelle per sentire la carezza del vento, un linguaggio comune per condividere emozioni ed esperienze. Tutte conquiste che la vita ha fatto per noi in centinaia di migliaia di anni!”.

Crearsi una scala di valori: “Quando la visione si allarga, quando scopriamo di non essere soli, di non essere isolati dal resto dell’umanità e dal resto della creazione, avviene una riorganizzazione spontanea dei valori, si comincia a cogliere l’importanza dei piccoli gesti, dimostrazione concreta e immediata del senso di compartecipazione, della fratellanza e sorellanza implicita nel fatto stesso di essere “qui e ora” in questo tempo e in questo spazio. Chiedetevi quali sono i vostri valori e metteteli in graduatoria. Poi aggiornate l’elenco ogni sei mesi.

Coltivare la gentilezza amorevole: “ ‘Metta’ la chiama la tradizione buddista, un atteggiamento di premurosità, benevolenza e affetto nei confronti di sé e degli altri che può essere sviluppato attraverso l’esercizio e la meditazione e che predispone la mente a vedersi in relazione agli altri e creare con gli altri interazioni armoniche e collaborative. Si sviluppa a partire dalla memoria, ricordando le sensazioni e le emozioni di gratitudine, gioia e affetto provate nei momenti migliori della propria vita e vivificando ed espandendo quello stato interiore attraverso il ricordo”.







Predisposizione all’ascolto del mondo: “ Si guarda con gli occhi e con la mente, ma si ascolta con le orecchie e col cuore. Sintonizzare il cuore sul mondo vuol dire aprirsi anche al sentimento – e non solo al ragionamento – vuol dire confrontarsi con quello che succede attorno a noi senza più fare finta “che non ci riguardi”. E’ proprio dal cuore che attingiamo la carica necessaria per entrare in risonanza con ciò che percepiamo come essere “altro” da noi per poi rimboccarci le maniche e decidere di fare, in prima persona, qualcosa di utile.

Mettere i valori al primo posto: “Dopo avere aggiornato, periodicamente, la propria scala di valori, si tratta di onorare il proprio sentire più profondo e sintonizzare la vita quotidiana sulla lunghezza d’onda desiderata. I Valori non vanno seguiti e messi in atto perché “è giusto fare così”, ma soprattutto per il piacere di farlo, perché la soddisfazione che si prova nel fare qualche cosa per gli altri si rivela maggiore di quella che si prova nel godersi qualche cosa da soli, magari a scapito di qualcun altro. Provare per credere”.






Nessun gesto è troppo piccolo: “La vita quotidiana offre innumerevoli occasioni di agire in modo attento e consapevole nei confronti degli altri. Ogni interazione dovrebbe sottendere la capacità di entrare in empatia con qualcuno – persona, animale, pianta o intero ecosistema che sia – e la disponibilità a dedicare qualche momento dal proprio tempo o delle proprie energie per qualche cosa che riguarda altri, direttamente, ma riguarda sempre anche noi, indirettamente, in quanto esponenti dell’umanità o anche semplicemente terrestri. Basta poco”.


Da cosa cominciare?: “Da quello che è più vicino, alla mano e al cuore. Dai piccoli gesti da mettere in atto in famiglia, col piacere di sorprendere e di andare oltre il consueto. Da piccole attenzioni sul lavoro o nella cerchia di amici. Da uno sguardo più attento nel quartiere o città in cui si vive, dove molti già si battono per cause giuste e possono aver bisogno di aiuto. Da una attenzione in più nei confronti di chi è straniero, disagiato, disadattato là dove noi siamo di casa. Sino a un impegno in cause più grandi in cui sentiamo di potere e volere dare un contributo”.

















Mi piace concludere questo breviario del come vivere bene, di Marcella Danon, con una sua particolare citazione sulla bellezza:”Non si tratta di cercare la luce fuggendo dal basso verso l’alto, ma di portare la bellezza dei valori e delle idee verso il basso. Il compito che abbiamo in questo momento su questo bellissimo pianeta verde e azzurro è quello di “spiritualizzare la materia”.

Grazie e complimenti a Marcella Danon.

Il sito di “LIFE Gate magazine” " è all'indirizzo:

http://www.lifegate.it/ – il portale di eco-cultura





Voglio, oggi, aggiornare queste pagine e inserire una citazione trovata in un bell'articolo di Caterina Soffici, come sempre sagace nel commento ed attenta ai valori veri, su "Il Giornale" del 26 settembre 2006, dal titolo "Vandali di ieri, di oggi e di domani". La citazione, è inserita in un articolo che recensisce la nuova edizione de "I vandali in casa"di Antonio Cederna , edizioni Laterza, curata da Francesco Erbani.

“Per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità…Pare che, discesi in strada, letterati e scrittori diventino improvvisamente ciechi. E’ strano che essi, osservando il monumento raschiato e isolato o le case canili fra i ruderi di campagna, le finte colonne della nuova chiesa, l’inumano quartiere popolare o le carnevalesche nuove palazzine, non si accorgano che qui si rispecchia l’arretratezza del costume artistico, sociale e politico di tutta una società…intanto, quante belle occasioni, per capire il mondo in cui vivono, si lasciano scappare i nostri scrittori”.
( Antonio Cederna, 1956)
















PERCORSI:
IL BELLO, IL VERO E IL BENE PER UN CRITERIO DI BELLEZZA:le tre idealizzazioni nella filosofia

IL BENE: è una qualità morale. La morale si verifica nell’azione. L’azione è conoscenza. La conoscenza è educazione.
Per Platone, il supremo bene consiste nell’essere se stesso, nel mondo eterno delle idee e della ragione.
Per Epicuro, il bene è nella serena felicità raggiunta dal saggio.
Per Plotino, (neoplatonico) il bene è la mistica fusione con Dio.
Per Cartesio, il bene è nella libertà e nella verità.
Per Spinoza, il bene è nella beatitudine della conoscenza totale.
Per Kant, il bene è nella “volontà buona” e non esiste al di fuori di noi.

IL BENE MORALE E L’AZIONE

Il bene morale è nell’azione e nel concreto, anche quando i criteri d’azione proposti sono astratti o di tipo metafisico (morali-religiose o spiritualistiche in genere).
Per il loro stesso carattere di concretezza, i problemi dell’azione non potrebbero essere separati da quelli della conoscenza, che le azioni aiutano a porre e a risolvere. La conoscenza nasce infatti dai bisogni dell’azione ed è destinata a rispondervi; a sua volta l’azione, illuminata dalla conoscenza, educa e si rivela capace di progredire e migliorare il genere umano. Esiste dunque un’influenza reciproca tra la conoscenza e l’azione, tra la verità e la libertà, tra la teoria e la pratica. Questa funzione fondamentale dell’azione è stata messa in luce da molti filosofi.

Al proposito Goethe scrive: “All’inizio era l’azione”.
Per la causa del bene, la regola generale è nell’azione pratica che la giustifica (si agisce a fin di bene, sempre?).
Nel XX sec. l’azione è divenuta il senso di tutta quanta la realtà secondo il pensiero di Bergson e, sia pure in modo diverso, tale valutazione di senso e di bene nelle azioni ha la sua validità per i filosofi pragmatisti, di coloro che mirano col pensiero alle conseguenze pratiche, come James e Dewey.
Maurice Blondel, filosofo francese (1861-1949), nel suo “L’azione, saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica” (1893), gettò le basi di una filosofia cristiana capace di trovare la giustificazione della fede religiosa proprio nella pienezza dell’attività della coscienza, cioè nell’azione.
Secondo la tesi del Blondel, possiamo intuire il significato della vita attraverso il contrasto perenne esistente tra la nostra volontà, sempre tesa a un fine, e il risultato di questa tensione. L’uomo “vuole” la libertà e la sua azione tende ad attuarla; ma quel tanto di libertà che l’azione umana realizza è povera cosa rispetto a ciò che l’uomo continua a volere; pertanto la libertà che l’uomo ha reso concreta nella sua azione, pur nei suoi limiti, è ancora “un mezzo per raggiungere la pienezza di ciò che vogliamo”.
In tal modo l’uomo si rende conto che continua ad esistere una sproporzione tra ciò che realizza e ciò che vorrebbe realizzare ed essere, e tale sproporzione alimenta all’infinito l’azione umana: la famiglia, la patria, l’umanità sono proprio il prodotto di questa azione sempre tesa a realizzare un “tutto” che invece sfugge costantemente allo slancio dell’uomo, creandogli davanti un vuoto incolmabile. Solo la fede nel Dio della tradizione religiosa potrà, secondo l’analisi di Blondel, riempire il vuoto.

















IL BENE E LA COSCIENZA MORALE, VERSO LA BELLEZZA.
Se l’azione è bene, l’agire è cosciente? Se il bene sta nell’azione, l’azione deve porre diversi problemi alla coscienza morale che esprime giudizi di valore intorno ai sentimenti e alle azioni.
Per la scuola scozzese (T. Reid, D. Stewart, W. Hamilton) la coscienza morale è il “senso comune”, che garantisce la solidità dei valori etici fondamentali e il carattere concreto della conoscenza.
Questa scuola entrò in crisi nella seconda metà del XIX sec., sotto l’influenza del pensiero tedesco.
Kant identifica la coscienza morale con la ragione che si pronuncia sul piano pratico.
Stuart Mill spiega la coscienza morale con i ricordi e le associazioni che risultano nell’individuo dalla sua esperienza personale e, specialmente, dall’educazione.

Secondo Spencer la coscienza morale è un istinto lentamente costituitosi e trasmesso ereditariamente, alla cui formazione avrebbe contribuito principalmente la costrizione politica, religiosa e sociale, esercitata dall’opinione pubblica.

Secondo le tesi della sociologia, la coscienza morale individuale è il riflesso della “morale comune”, ovvero della morale praticata e soprattutto riconosciuta e professata in una data società; di qui la variazione di tale coscienza attraverso i tempi, da un paese all’altro e tra le classi sociali.

La coscienza morale, come la coscienza psicologica, è fatta di concetti che riflettono la vita nella società e le istituzioni che la esprimono.
Se i concetti non sono passivi e non si limitano a riflettere il mondo concreto della società e delle istituzioni, sorgono le esigenze di un ideale morale e di valori. Spesso accade che questa vita morale e spirituale sia in contrasto con la civiltà e le istituzioni esistenti: da qui sorgono i conflitti nella valutazione del bene secondo la coscienza morale, tra le convinzioni personali e i “valori” riconosciuti ed espressi dalla società; conflitti e contrasti fra la tradizione e le idee nuove.
Questa “dialettica morale” costituisce l’essenza del progresso morale.


















IL CRITERIO DELLA VERITA’ PER GIUNGERE ALLA BELLEZZA

La ricerca del criterio della verità ha preoccupato tutti i grandi filosofi.
In Aristotele, tale criterio risiede in un rapporto esatto dei concetti con il reale. (Ma qual è l’esattezza dei concetti? Cosa significa esatto per me e per gli altri?).
Per Platone, il criterio di verità è nella intuizione delle idee eterne.
Per Cartesio, il criterio di verità è nell’evidenza intuitiva dell’idea chiara e distinta (anche qui, le qualità dell’idea ”chiara e distinta” dovute all’intuizione: quest’ultima è innata o viene per educazione?).
Per Spinoza, il criterio della verità va cercato nel rigoroso parallelismo tra pensiero e un numero più o meno grande di individui o di specie (per estensione).
Per Kant, il criterio di verità va individuato nella coerenza del pensiero con se stesso.
Per i pragmatici il criterio di verità sta nel successo (!!).
Per Hegel e i suoi successori in una dialettica tra concetto e realtà.
Per gli scettici, tutti i diversi criteri non esistono e nulla distingue il vero dal falso.

Pascal ha messo in rilievo le variazioni del criterio morale di verità nella celebre formula:”Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là”.












I criteri non giungono ad esito definito per quanto riguarda la coscienza morale, per definire la verità; tali criteri riflettono lo stato sociale e ideologico dell’epoca e del paese e mutano con una certa continuità.

LA NOZIONE DI VALORE PER GIUNGERE ALLA BELLEZZA

Come per il bene, alla nozione di valore si è cercato di attribuire un tipo di realtà. Da un lato alcune tendenze filosofiche, per garantire l’assolutezza e l’immutabilità dei valori, propongono ed ammettono per essi un modo di esistenza senza tempo e oltre la storia, trascendentali (Kant, Widelband, Rieckert e in genere “la scuola di Baden”) o idee metafisiche (Dio) (per Platone,, Hartmann, Le senne).

Anche quando, come nel caso di M. Scheler, l’apprezzamento dei valori è affidato a organi quali l’intuizione o il sentimento, restano tuttavia ferme l’oggettività e la disposizione gerarchica di essi.
D’altro canto, sotto l’influenza di Nietzsche, si è affermata in alcune correnti della filosofia tedesca, fra il XIX e XX sec. l’esigenza della storicizzazione e relativizzazione dei valori (Dilthey, Rimmel, ecc.).
Le numerose versioni dello storicismo, da Troeltsh a Meinecke, a Croce, sono in larga misura tentativi di rendere compatibile l’assolutezza con la storicità dei valori, e cioè di intendere la natura ambigua di enti che cessano di esistere in quanto tali se vengono del tutto relativizzati e d’altra parte diventano inutili se relegati in una trascendenza remota (!?).

La scuola di Baden o di assiologia (scienza del degno, del valido: dottrina dei valori).
Circolo filosofico fondato da Wilhelm Windelband 1848-1915). I filosofi di questa scuola svilupparono alcuni fondamentali motivi già presi in esame dalla "scuola di Morpurgo", nella quale era già stato respinto il criterio kantiano della cosa in sé che, svolto coerentemente, non può non portare a una concezione metafisica.
La scuola di Baden, sotto l’impulso di Windelband, accentuò il motivo dell’autonomia del pensiero nei confronti della natura e della psicologia, fondando la cosiddetta filosofia dei valori storici, morali, estetici, ecc. aventi una loro autonomia e una loro assoluta soggettività.
In questo senso la filosofia dei valori cercò di eludere ogni metafisica di tipo positivistico e di affermare la necessità ideale di una misura assoluta al di sopra del variare dell’esperienza.















Immasnuel KANT, nella “Critica del giudizio”, colloca l’esperienza estetica nella sfera del sentimento, rivelatore della finalità. Si tratta peraltro di un sentimento tutto particolare, indipendente dai sensi, senza interesse, universale e necessario.
In Kant, il giudizio estetico è la percezione sentimentale e l’accordo esistente fra le manifestazioni determinate dalla natura e le nostre esigenze soggettive di unità e di armonia. ( A tale riconoscimento è connesso un piacere disinteressato).












ESTETICA NEOCLASSICA E PRE-ROMANTICA

- Johann Joachim WINCKELMANN (Stendal, 1717- Trieste, 1768). Archeologo e storico dell’arte Tedesco. Appassionato dell’antichità classica, frequentò i circoli artistici di Dresda; convertitosi al cattolicesimo, nel 1755 si trasferì a Roma, dove fu bibliotecario del cardinale A. Albani; visitò più volte Pompei, Ercolano e Paestum, contribuendo alla divulgazione dei risultati degli scavi; e fu infine nominato sovrintendente ai monumenti antichi, acquisendo grande fama ed entrando in contatto con gli intellettuali di tutta l’Europa.
Winckelmann contribuì in maniera determinante alla formazione del gusto neoclassico, focalizzando la sua attenzione sulla scultura greca, che egli peraltro conosceva esclusivamente attraverso copie romane, e individuandovi la perfetta realizzazione di un ideale estetico che metteva spirito e corpo in una superiore armonia, in quanto frutto di un completo dominio delle passioni.
Fondamentale è la svolta che la sua opera imprime alla scrittura di trattati sull’arte; egli, legando allo sviluppo della civiltà l’evoluzione dello stile, segnò la nascita della storiografia artistica e fissò teoricamente questo moto estetico della neoclassicità indirizzandolo all’universalismo, collegando culture dei popoli nordici e mediterranei; per cui il Carducci, accennando alla sua tomba, dirà, in “Saluto italico”:

…l’urna, ove ancor tra’ due popoli
Winckelmann guarda, araldo de l’arte e de la gloria


- Ugo FOSCOLO (Zante 1778 – Turnham Green, Londra, 1827)

Ugo Foscolo è la armoniosa e originale sintesi del neoclassicismo, ma anche un inquieto precursore del romanticismo. Partendo dagli studi vichiani, egli fu rinnovatore della cultura e del gusto estetico.
Nel poeta il Foscolo incarna tutto se stesso, l’uomo, l’artista e il maestro: perciò la poesia è per lui non solo opera di creazione, ma di vita e meditazione; e le teorie dell’arte che egli vagheggiava cercano di accordarsi e potenziare il suo canto, per rivelare qualità alte e vere. Così il Foscolo, più che in filosofia, è originale nel pensiero estetico e critico, avviando i concetti sull’arte nel cammino che dal Vico giunge ai moderni e specialmente al De Sanctis; ma da queste idee estetiche anche la sua poesia prende libero slancio fantastico, la perfezione di severa armonia e l’accorata contemplazione, quasi di uno spirito religioso.

Dai suoi studi sui miti, il Foscolo deduce che la poesia è trasfigurazione fantastica del ricco pensiero che deve animare il poeta; e in questa trasfigurazione sta la poesia che è creazione di miti; e i sommi scrittori sono poeti-vati. Non solo i miti antichi ma anche i nuovi può foggiare il poeta, traendoli dal meraviglioso e dalla storia. Per questi concetti che rinnovano il classicismo, il Foscolo, in maniera originale, nella sua grecità fa dell’arte una viva Illusione e della Bellezza un modo di eternità. Poiché la Bellezza è armonia, serenità, pudore: ed è quindi serenatrice, nel placare l’umano “spirito guerriero”; e se la Bellezza placa, educa gli uomini ed è quindi altamente civilizzatrice; incitatrice del progresso umano.
E’ nei “12 Sonetti” e nei “Sepolcri” che noi sentiamo pieno questo accordo foscoliano della passione umana con la divina bellezza, poiché questi sono i suoi canti perfetti.
Sicuro che la poesia è trasfigurazione fantastica di idee, il Foscolo dà una particolare importanza alla parola, che è il mezzo di questa trasfigurazione.











ROMANTICISMO ED ESTETICA ROMANTICA

Il motivo della creatività e dell’originalità (in opposizione all’antica imitazione), e quello del valore conoscitivo dell’arte, dominano l’estetica romantica.

Per SCHELLING l’arte è addirittura la prosecuzione dell’attività creativa di Dio e al tempo stesso l’organo privilegiato della conoscenza metafisica. Il produttore di opere d’arte diventa così più che un uomo e acquista i tratti titanici di quello che i romantici chiamano il ‘Genio’.

Anche per HEGEL l’arte è creazione e conoscenza, sebbene solo come primo momento di quella autocoscienza dello Spirito Assoluto che trova la sua autentica e totale realizzazione nella filosofia.

SCHOPENHAUER, nel “Mondo come volontà e rappresentazione”, riprende con accenti originali il motivo platonizzante dell’arte rivelatrice dell’ideale presente nel reale.









- William BLAKE ( 1757-1827)

Poeta, pittore e incisore inglese. Natura divina dell’energia e dell’immaginazione. Negatività delle ideologie meccanicistiche nate dall’industrialismo. Unità mistica dell’universo. Illustrò egli stesso i propri libri, inventando nuove tecniche dell’incisione. Per Blake il libro doveva essere simile al manoscritto miniato medievale, con testo e illustrazioni intimamente fusi. Nel campo delle arti figurative fu molto influenzato dal gotico, da Michelangelo, dall’antichità greco-romana. Nella pittura di Blake la tensione delle poderose masse plastiche michelangiolesche diventano torsione e scatto della linea. La linea è l’elemento essenziale dello stile di Blake che, anche nelle rappresentazioni di fiori e animali, sa esprimere nella flessuosità dolcezza e gioia di vivere.
Estetica del sublime, fino a raggiungere un’espressione parossistica, in cui il dato sensibile è sempre trasfigurato in visione profetica: “L’immaginazione è il mio mondo”, egli scrisse in una nota.


- Friedrich SCHLEGEL (Hannover, 1772- Dresda, 1829)

Scrittore e filosofo tedesco. Studioso della cultura greca, sottolineò il carattere “oggettivo” della poesia antica in contrapposizione a quello “soggettivo” di quella moderna (“Sulla studio della poesia greca”, 1794). Nel “Dialogo sulla poesia” (1800) e nelle “Idee” (1801) espose i capisaldi della concezione romantica della poesia, indicando come ultimo scopo di essa quello di perseguire il soddisfacimento dell’aspirazione all’infinito, caratteristica dell’uomo moderno.
Schlegel scrisse: “La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo scopo è non soltanto unificare di nuovo tutti i generi separati della poesia e mettere questa in contatto con la filosofia e la retorica, ma vuole e deve anche mescolare o fondere la prosa e la poesia, il genio creatore e la critica, la poesia d’arte e la poesia naturale, rendere vivace e socievole la poesia, e poetiche la vita e la società”.


La definizione è davvero romanticamente comprensiva e feconda. Se nell’arte il soggetto mette direttamente se stesso, le sue percezioni e la sua qualità culturale, non c’è più la necessaria trasfigurazione del reale per mezzo della fantasia, cioè il mito (come aveva teorizzato il Foscolo, fissando un processo poetico del classicismo) ma c’è l’espressione immediata, cioè lirica, dell’anima o del cuore.
Da qui la prevalenza del sentimento sulla fantasia, e così un’arte non più plastica, visiva (come, per noi, i classici Monti e Foscolo) ma colorismo pittorico o meglio quella sfumatura intensamente musicale, che predilige e segue lieve le sensazioni più fugaci e incerte, ondeggianti nell’indistinto dei sentimenti; così che essa meglio interpreta il “non so che”, l’inconscio, il mistero, l’ineffabile…; e intuisce i misteriosi rapporti fra le cose divine e fra il mondo della natura e dello spirito, in un simbolismo estetico: “il Bello è una rappresentazione simbolica dell’Infinito”, disse Schlegel; e nei modi espressivi si affina la tendenza all’indefinito, alle mezze luci, alla indiretta (blanda o vorticosa) suggestione, che lascia più intuire che vedere le cose; fino ai giuochi, ai passaggi, alle mescolanze inaspettate delle varie impressioni dei sensi che si compenetrano e si sostituiscono.
Questo primo fervore romantico rinnovò particolarmente la sensibilità, il gusto e quindi l’arte, e così la critica. L’arte romantica è soprattutto espressione dell’io libero, creatore, istintivo, sentimentale; e nella totalità, che è il sogno dei romantici, l’arte si incarna nella vita: e la prima opera d’arte è la vita stessa, intensamente e drammaticamente vissuta in un perenne sviluppo, fino all’eroismo o fino al suicidio. Da qui tutte le seguenti derivazioni e degenerazioni dei poeti “maledetti”, dediti all’alcol, all’oppio; o anche solo degli artisti della “boheme”, della scapigliatura…; e dei disperati figli del secolo o dei superuomini…
Superfluo qui ricordare la futura poesia che si disse appunto del simbolismo; con le sue propaggini nella musica per es. di Wagner (nel “Tristano”: eternità d’amore) o con le sue degenerazioni mistico-sensualistiche che gravano nel “San Sebastiano” del D’Annunzio.

Quasi tutta la poesia moderna dal Baudelaire al Pascoli, ai decadenti, ai crepuscolari e in parte agli ermetici stessi, pur tra tante differenze, segue questa via, che è anche quella indicata dall’estetica del “Fanciullino” di Pascoli.

Perciò sempre più l’arte e la poesia cercano un loro procedimento che le separi dalla ragione, dalla prosa, dalla stessa “costruzione” e “composizione” delle maniere tradizionali; e con esse si tende un processo alogico, che riconduce essenzialmente l’arte alla lirica…
Tale interpretazione dell’arte è propria all’estetica moderna, che teorizza l’arte pura, distinguendola dalla “letteratura”, dall’eloquenza e da tutti gli interessi pratici, anche ideali.
Il mondo della poesia si identifica quasi con la favola, col sogno. Diceva Novalis nei suoi “Frammenti” : “Una favola è come il susseguirsi delle immagini nel sogno…; la favola è, per così dire, il canone della poesia. Ogni cosa poetica deve essere favolosa”; ma un sogno che intuisce e rivela ciò che la ragione non sa intendere: “il senso poetico è molto affine al senso mistico; e le parole del poeta non sono segni generali, ma parole magiche…”
Anche questi sono spunti critici che avranno sviluppo presso una scuola critica che sublima l’arte come mistica rivelazione e preghiera (Bremond); mentre il culto della parola, fatta quasi magica nel potenziamento suggestivo della sua nudità attraverso il silenzio, è un modo poetico affine, in parte, alla poesia degli ermetici.

Tutto questo soggettivismo accresce l’impeto della libertà artistica: e scioglie l’artista dai limiti teorici dell’imitazione (concetto derivato dai classici: mentre l’arte è creazione) e lo affranca dal rispetto delle regole tradizionali e dei generi fissi.



- John RUSKIN (1819-1900)

Critico d’arte inglese, professore di storia dell’arte a Oxford. Dopo aver espresso le sue teorie estetiche in “Pittori moderni” (1843-1860), Ruskin sviluppò le sue idee sui rapporti tra vita, arte, politica e società in due opere fondamentali : “Le sette lampade dell’architettura” (1849) e “Le pietre di Venezia” (1851-53). Il graduale passaggio dagli studi sull’arte ( in particolare sull’architettura) all’analisi delle loro relazioni con la realtà culturale e sociale condusse Ruskin a muovere critiche aspre e sempre più esplicite alla civiltà industriale, alla quale contrapponeva, come esempio positivo, l’unità culturale del gotico. L’attacco al mercantilismo, contenuto nel suo libro “Fino all’ultimo”, gli attirò l’ostilità di gran parte del mondo accademico. Un’autobiografia è rimasta incompleta: “Praeterita” (1885-1900).
Ai suoi inizi assai vicino alle idee di W. A. Pugin nella rivalutazione del gotico (“La poesia dell’architettura”, 1837), ne riprese le tesi con appassionata sensibilità estetica e un profondo senso di “moralità”, elemento che egli riteneva connaturato alla creazione artistica. L’esaltazione del valore religioso e morale dell’arte fu alla base della sua rivalutazione dei pittori primitivi italiani (Giotto, Beato Angelico)( in “Pittori moderni”, 4 voll., 18646-60) e del suo conseguente avvicinamento al movimento preraffaellita, che Ruskin difese appassionatamente e di cui divenne una sorta di nume tutelare. Gli interessi sociali dello scrittore, accentuati soprattutto nell’ultima fase della sua vita, forniscono spunti importanti (valutazione del lavoro collettivo medievale e dell’artigianato) al pensiero e all’azione di Morris. Non si può infine dimenticare la penetrante lettura svolta da Ruskin dell’arte di William Turner.

Ruskin studiò con straordinaria acutezza l’essenza dell’arte e il complicato intreccio dei suoi rapporti con l’ambiente e la storia.
Le sue idee scaturivano da una profonda concezione umanistica del valore dell’arte. “L’arte deve fare –secondo Turner – da mezzo unificatore e ispiratore di una più alta e spirituale sintesi “ (opere: “Munera Pulveris”, 1862; “Tempo e Marea”, 1867; “Sesamo e figli”, 1868; raccolte di saggi, lettere, dove esalta l’arte come via di purificazione).


- Arnold BÖCKLIN (Basilea 1827- Fiesole 1901)

Pittore svizzero-tedesco. A Roma scoprì il mondo antico e la mitologia classica, una realtà che agirà come potente stimolo per la sua ispirazione. Visitò Napoli e Pompei, i cui affreschi gli offrirono numerose suggestioni, destinate ad influenzare in modo decisivo la sua sensibilità e la sua tecnica. Dal 1874 al 1884 è a Firenze, e poi a Fiesole. La visionarietà della sua pittura deriva dallo spaesamento dei corpi nello spazio, dal contrasto ambiguo e misterioso che provoca la dislocazione di immagini corpose in ambientazioni irreali. Rimase estraneo al clima morboso del simbolismo francese.
Blake realizza l’immagine con una saldezza ancora realistica e una precisione accademica: un mondo improbabile visto con lo stesso occhio con cui si osserva il quotidiano. La sua pittura simbolico-allegorica prelude al surrealismo. (vedere “L’isola dei morti”).

- William TURNER Joseph Mallord (Londra 1775-1851)

Pittore inglese. Pur non dimenticando mai la lezione dei maestri del passato, egli andò progressivamente elaborando una maniera personalissima, con un sempre più approfondito studio degli effetti atmosferici e luministici; l’interesse dell’artista è accentrato sul paesaggio, sulla resa dei valori atmosferici e, spesso, sugli aspetti più drammatici e “sublimi” della natura (“La quinta piaga d’Egitto”, 1800; “Tempesta di neve”, 1842; “Pioggia vapore e velocità”, 1844; “Mattinata di brina”, 1813).
Il primo viaggio in Italia (1819), durante il quale Turner visitò Venezia, Roma, Napoli, gli rivelò l’intensa luminosità dell’atmosfera italiana, e questa esperienza fu determinante per l’evoluzione del suo stile verso un intenso lirismo, che precorse l’impressionismo francese.


PRERAFFAELLITI (dopo il 1850)

Corrente letteraria e artistica inglese sorta verso la metà del XIX secolo. Promosso da un gruppo di giovani poeti e pittori, il preraffaellismo concretò l’aspirazione a liberare l’arte dal convenzionalismo sterile e dal materialismo cui il progresso tecnico industriale l’aveva ridotta, per ricondurla alla autenticità creativa e di espressione dei pittori anteriori a Raffaello.
Collegato a movimenti artistici analoghi in Europa (come i Nazareni, in Germania, e il gruppo lionese, ispirato da In gres, in Francia), il preraffaellismo ebbe come fondatore e maggior interprete il poeta e pittore Dante Gabriele Rossetti, inglese (ma di padre italiano: patriota e letterato, nato a Vasto, Chieti, esule a Londra dopo i moti rivoluzionari del 1820).
La pubblicazione della rivista “The Germ” contribuì a diffondere le teorie poetiche del movimento. Tra gli intellettuali e artisti che vi aderirono ricordiamo H. Hunt, J.E. Millais, lo scultore Th. Woolner, cui si aggiunsero F.G. Stephens, J. Collinson, Christina Rossetti.
Epigono del movimento fu A.C. Swinburne.
I preraffaelliti si ispirarono a un Medioevo di prima mano (le tradizioni patrie, Dante e gli stilnovisti), ma non di rado filtrato attraverso la poesia dei romantici (Keats) o dei contemporanei (Browning). Importante fu anche l’influsso dell’opera pittorica, grafica e poetica, del preromantico Blake. Al gruppo aderì anche il pittore Burne-Jones. I preraffaelliti esercitarono un notevole influsso sulle correnti artistiche del tardo Ottocento, dall’art noveau al simbolismo, grazie anche alla mediazione di artisti quali W. Morris, Crane, Beardsley, che da questo movimento presero le mosse.

Il preraffaellismo fu in un primo momento accusato di materialismo e di sensualismo, finché non intervenne in sua difesa l’autorevole critico e scrittore J. Ruskin.

Le idee di bene, di vero e di bello, così lungamente considerate immutabili ed eterne, si evolvono in realtà secondo le epoche e le società; da ciò non consegue tuttavia una valutazione scettica nei loro riguardi, ma piuttosto che tali nozioni progrediscono e si costruiscono giorno per giorno, in concomitanza con ogni forma di progresso umano, e che costituiscono un limite ideale, continuamente rinviato ad altro tempo, ma sempre meta che ci si prefigge di raggiungere.


Benedetto CROCE ha raccolto in una sintesi originale i motivi principali della tradizione vichiano-romantica. Con la sua filosofia dell’arte e con la sua operosità di critico, il Croce ha condizionato in larga misura il pensiero estetico moderno. Anche egli insiste sul carattere conoscitivo dell'arte, ma non concettuale(“l’arte è intuizione”), sull’assoluta originalità dell’opera d’arte, sul “sentimento” come oggetto dell’ intuizione estetica, sul carattere ”pratico” non essenziale all’arte, del mezzo tecnico di comunicazione.

Il secondo dopoguerra ha messo in crisi l’egemonia della filosofia idealistica nel mondo culturale italiano, e con essa anche l’estetica crociana.

La filosofia di ispirazione marxista insiste particolarmente sull’”impegno” (inteso come partecipazione responsabile dell’artista alle grandi questioni del proprio tempo) e sul legame fra l’opera d’arte e le strutture materiali della società, da cui essa emerge.

DEWEY batte l’accento sul carattere di costruzione dell’opera d’arte e in parte almeno certi suoi motivi sono stati ereditati dai cosiddetti critici “strutturalisti”.

La fenomenologia applica all’arte i suoi metodi di indagine, con vari risultati.

Si può dire, con qualche approssimazione, che quella contemporanea è l’estetica dei ricercatori, dei tecnici dell’arte, piuttosto che dei dottrinari. Essa è, almeno per il momento, seguendo la diffidenza della filosofia contemporanea per le costruzioni chiuse, una estetica sperimentale.











































INCANTO:" Diletto, stupore, ammirazione che avviene in un modo che ha del magico".



ETICA, MORALE E BELLEZZA
(Dal greco “etos”= “costume”). L’etica è una disciplina filosofica che studia l’attività pratica e, più precisamente, il comportamento operativo dell’uomo (temperanza, giustizia, coraggio, ecc.).
In natura tutto agisce secondo le leggi naturali; l’uomo soltanto, perché fornito di ragione, ha una volontà; se l’uomo fosse tutto ragione, la volontà sua dovrebbe agire sempre secondo ragione, seguendo la legge di natura; in questo caso, ragione e volontà coinciderebbero; ma non è così. L’uomo ha passioni, inclinazioni, impulsi contrari alla ragione; allora la ragione deve imporsi alla volontà, contro gli elementi perturbatori, con un comando, che si esprime imperativamente con le leggi, che dovrebbero essere ben ponderate, prima di essere emanate, nel rispetto del più ampio numero delle volontà individuali.
La moralità accetta necessariamente la libertà del volere umano, ma ciò impone all’uomo il dovere di stabilire in che cosa consista il bene morale, il bene supremo delle attività umane pratiche.
Aristotele, nell’”Etica nicomachea”, ripone il bene supremo delle attività umane nella felicità, che consiste per l’uomo nella perfezione dell’attività razionale a lui propria, in cui distingue due etiche: quella teoretica e quella pratica; la prima è la condizione idealizzata e perfetta, superiore alla seconda. L’uomo, con le sue azioni, dovrebbe tendere verso la prima.
La virtù etica tuttavia può considerarsi la strada media, la giusta misura che la ragione prescrive rifuggendo ugualmente l’eccesso e il difetto.
La virtù non è una disposizione naturale, ma un’abitudine della volontà, una disposizione salda e costante ad operare rettamente, che si acquisisce con l’esercizio.
Ma la suprema virtù o felicità è sempre la pura contemplazione, che ci pone a confronto di Dio e ad operare “a sua immagine e somiglianza”.
L’etica cristiana supera la concezione intellettualistica della Grecia affermando una realtà spirituale che si può attuare per opera dell’uomo, il quale non trova ma costruisce il proprio mondo.
La storia del pensiero offre esempi delle antitesi più varie nella fondazione della morale: ci sono morali ascetiche e morali edonistiche 8che identificano il bene col piacere sensibile e immediato), morali del sentimento e morali della ragione, morali utilitaristiche e morali altruistiche, morali della salvezza individuale e morali della responsabilità.
Tante alternative giustificano per alcuni la decisione di collocare anche la fondazione della morale fra quei falsi problemi dei quali il pensiero è chiamato non a dare la soluzione, ma solo a indicare la falsità dell’impostazione.
Secondo B. Russell e secondo molti rappresentanti della moderna filosofia analitica, la morale è solo una questione di preferenze soggettive, delle quali non può essere operata una elaborazione razionale.
Ma una rinuncia così radicale non risulta necessaria.
Il filosofo Nicola Abbagnano propone, sulle orme di Dewey, una ricerca senza pregiudizi, che consideri la morale come una “tecnica della condotta” e che descriva, lasciando cadere le ambizioni di totalità, i modi di realizzazione di questa tecnica nei diversi gruppi sociali.


















TRASH…E…DESIDERIO … NELL’ INATTUALITA’ DEL CANONE ESTETICO
Tuttavia, la tendenza a considerare la bellezza di ciò che è presente o ci si presenta o si avverte, e che suscita un’armoniosa e rasserenante sensazione, che è conforto ai nostri sentimenti, appagamento e riequilibrio di un malessere, in grazia del concetto di bellezza che ognuno porta in sé, appare tanto dubbia quanto insopprimibile; e ciò dipende dalle qualità del soggetto, dalla sua educazione culturale.

Dobbiamo dire, però, che i nostri predecessori, che hanno cercato di definire un canone estetico secondo filosofia, psicologia, sociologia, ovvero secondo le qualità del bello, del vero e del bene (giusto), sono vissuti in epoche in cui non vi era una società iper-comunicativa, di mescolanza multirazziale e complessa, con tante manifestazioni di espressione e comportamento, con tanta produzione “artistica”, come quella attuale.
Quando molte di queste manifestazioni danno prodotti di sconsiderata sovrabbondanza e mercificazione, vuol dire che il prodotto “d’arte” è di “facile” produzione perché è nell’ambiguità interpretativa e significativa, o che è semplicistico chiamare ancora “arte” tutta la produzione in questo tradizionale ambito disciplinare, o anche che l’arte non è più un prodotto della espressione qualitativa di “Bellezza”. La parola arte è un’astrazione .

Il bello nell’arte è nell’anomia e nella clinica!
Dove e come ricercare allora la bellezza? Non nel “gusto” personale, certamente: abbiamo visto che comporterebbe una eterogenea congerie di attribuzioni qualitative ed estetiche, ed un relativismo di apprezzamento che ci lascerebbe in una continua sospensione del giudizio: tutto può essere arte perché “si dice” fatto in quell’ambito disciplinare.
Se il prodotto artistico è nella insopprimibile ambiguità, è il mercato dell’arte che fa dell’arte una merce; sono “i notabili” mercificatori che decretano il successo dei prodotti, con investimenti finanziari nel mercato, alterazione della significazione dell’arte come “bellezza”. L’arte diventa prodotto di pubblicità interessata, come qualsiasi altra merce.
A questo punto l’arte esce dal canone di riferimento di bellezza e il processo di intellettualizzazione dell’opera d’arte, che rappresentava la più cospicua novità in campo estetico di questi ultimi due secoli, perde il suo peso. L’aggettivo “creativo” è un eufemismo!

L’atto umano, in assoluto, più vicino al concetto di “creazione” è la nascita di un figlio. Altro avvenimento “bello e creativo” nella natura è la crescita di una pianta e la bellezza del suo sviluppo; è bella la nascita e la presenza di alcuni animali, la visione dei paesaggi, di alcuni fenomeni atmosferici, ma non tutto è bello nella natura.
















Il giusto e la giustizia non producono bellezza!
Il concetto di bellezza, inoltre, non è nella giustizia; perché la giustizia con le sue leggi non è in grado di arrecare il bene comune tra tutti i mortali, con l’appagamento di vita e di condizione sociale, l’equa distribuzione dei beni, la qualità della vita e il tempo e lo spazio necessari per “essere o immergersi” nella bellezza. Il giusto, la giustizia, con le sue leggi relative ai vari popoli e alle varie politiche, risente di un “gusto” sociale personalistico o di una elite al potere in una data epoca, e questo non può produrre e costituire bellezza di riferimento per tutti e per sempre.

La bontà e l’onesta come qualità morali che producono bellezza
La bellezza è una idealizzazione a cui tendere in divenire. Deve essere un obbligo educativo, dell’educazione continua di ciò che è metafisico, immateriale ed estraneo alla produzione.
La bellezza è qualità della coscienza e del vissuto, per il fine a cui tende l’azione, la bontà, l’onesta, qualità spirituali e morali.
La bellezza è dei santi, dell’innalzamento delle emozioni al di sopra dei beni materiali.
Le dottrine morali sono il viatico per giungere alla bellezza.

Ma cos’è la morale? E perché viene tanto derisa ? (Morale pubblica e morale privata).













La bellezza è un’idea riflessa che ha come componente essenziale lo scarto.

Essa nasce da una scelta tra la confusione dei linguaggi artificiali e “i linguaggi” della natura. La bellezza è nell’osservazione e nella ricezione, che facciamo nostra interiormente, quando abbiamo operato lo scarto. Chi ha paura di operare lo scarto, temendo il giudizio negativo altrui, di coloro che abbracciano il relativismo morale ed etico, non giungerà mai né ad operare nella bellezza né ad avere una conoscenza di ciò che è bellezza.
Se per operare lo scarto è necessario conoscere il brutto, il terribile, l’orrendo, l’immorale, l’ineducato, ciò nonostante il giudizio estetico deve tendere ad usare i suoi criteri per esemplare il portatore di bellezza intima, nella sua produzione artistica figurativa o metafisico-astratta, poetica e di altri tipi di linguaggi, demistificando e separando chi non sa produrre armonia, lirismo etico e morale.

I “bidet” e le “cacche” degli artisti, “le biciclette e i tricicli”, “i rumori” della musica, i linguaggi volgari e strafottenti di certi “letterati”, anche se denunciano e ci fanno riflettere sullo stato critico dell’arte e di altri linguaggi, non sono opere di estetica e di bellezza, e quindi di vera arte: sono provocazioni, forse a volte curiosità divertenti per qualcuno; ma dovrebbe finire tutto qui, se i mercificatori scanzonati non fossero così addentro alle umane debolezze da quantificare in moneta la stranezza.

L’educazione estetica e la scelta etica, nei paesi liberi e democratici, dunque, sono alla base del concetto di bellezza. Chi educa dovrebbe conoscere non solo le qualità e i criteri per indirizzare al bello e alla bellezza, ma avere egli stesso la cognizione di portare dentro la propria bellezza, la propria armonia estetica, perché a ciò si è preparato: come genitore, insegnante, artista, politico e compagnia cantando e “cantante”, e per qualsiasi disciplina o dovere si voglia insegnare, per educare.
























L’ETICA KANTIANA

L’etica kantiana, che segna il 3° grande momento della storia della morale, afferma la completa autonomia della moralità da regole date dalla ragione o dottrine religiose, ma fa derivare essa dalla coscienza, cioè dalla considerazione che ogni persona ha di sé in rapporto col mondo.
Nell’etica kantiana ritorna il motivo trascendente nelle considerazioni e nelle esigenze dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, per cui l’uomo è perfettibile nell’armonia della virtù etica con la felicità del “Sommo bene”, che sono le basi di ogni vera dottrina morale.
“Sommo bene” è il bene desiderabile di per se stesso e non come condizione di un bene ulteriore. La nozione di “Sommo bene” fu introdotta da Aristotele per evitare, come risulta chiaramente dall’”Etica nicomachea”, che si aprisse un processo all’infinito con la serie dei fini.
Nel pensiero cristiano il “Sommo bene” si identifica con Dio.
Kant riprese il concetto nella “Critica della ragione pratica”, dove il “Sommo bene” è definito come unione di virtù e felicità.
Secondo Kant il “Newton del mondo morale” che diede una svolta decisiva al pensiero moderno fu J.J. Rousseau, scrittore e filosofo svizzero di lingua francese. Da lui Kant derivò l’esigenza di una morale che si sottraesse alla garanzia precaria del sentimento e si fondasse sull’autonomia della volontà e sull’assolutezza incondizionata della legge.
Il fatto è, che tutti i pensieri lasciati da J.J. Rousseau nelle sue opere contrastino vistosamente e inequivocabilmente con le sue azioni e l’irregolarità della sua vita e del suo rapporto con i figli. Un teorico dell’educazione di tale portata è stato un libertino che ha convissuto con donne di non specchiate virtù, ed ha lasciato tutti i numerosi figli negli ospizi, senza curarsene.

ESTETICA E MORALE IN BENEDETTO CROCE

Il Croce considera la volontà morale come sintesi del ragionare e discutere le attività economiche e le esigenze etiche, le volontà e le richieste pratiche ed utili, poiché in ciò che accade e necessita realmente vi è già l’eterno, e l’azione morale con le sue regole e la volontà individuale non contrastano tra loro.
Agli anni dell’ultimo Ottocento risalgono l’inizio dell’amicizia con il Gentile e la prima formulazione del proposito di comporre un’estetica e una storia dell’estetica. A conclusione di un lungo travaglio di pensiero il Croce pubblicò nel 192 “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”, un libro che ha rivestito un’importanza assolutamente eccezionale nella storia della cultura italiana e che ha esercitato una vasta influenza su tutta la cultura europea.
Sulle idee elaborate nell’”Estetica” del 1902, il Croce tornò più volte, in uno sforzo incessante di approfondimento e di chiarificazione: si ricordano il “Breviario di estetica” (1913), “I Nuovi saggi di estetica” (1920) e “La poesia” (1936); in questo ultimo scritto, l’introduzione del nuovo concetto di “letteratura” tende a favorire una più libera aderenza della critica alla varietà dei fatti letterari. Nel 1933 esce “Poesia popolare e poesia d’arte”; nel 1941 “Poesia antica e moderna” e nel 1950 “Letture di poeti”.
Queste ed altre opere, insieme all’”Estetica”, formano la filosofia dello spirito.
Croce ha riconosciuto il debito delle sue tesi sia a G.B. Vico sia ad Hegel. Del pensiero di Vico, il Croce fece una interpretazione molto personale in “La filosofia di G.B. Vico” (1911).










INDIVIDUALISMO E MORALITA’

L’individualismo è la tendenza all’affermazione di sé che fa prevalere gli interessi e i valori individuali su quelli collettivi. L’individualismo classico è tutt’altra cosa dall’individualismo moderno. Dal grande fiume del solidarismo, dell’egualitarismo e della temuta massificazione dell’uomo attuale, l’individualismo riemerge, in epoca moderna, con rivolta aristocratica, come ribellione del singolo che rifiuta di lasciarsi assorbire nel conformismo.
Nel mondo contemporaneo. dominato dalle pressioni conformistiche della società di massa, l’individualismo si manifesta tra l’altro nella rivolta di certi intellettuali che tendono a vestire di nuovo i panni romantici del ribelle e del maledetto (gli artisti ‘beatnik’); nell’ostentata difformità della propria condotta dalle regole della morale corrente; nell’aggressiva eccentricità delle acconciature e dell’abbigliamento.

EDONISMO E MORALITA’

L’edonismo è l’atteggiamento di chi considera come essenziale nella vita la ricerca del piacere immediato. Tale tendenza in filosofia fu rappresentata nell’antichità da Aristippo di Cirene, fondatore di una scuola detta pirenaica. L’edonismo fu criticato dai maggiori filosofi, in particolare da I. Kant.

EGOTISMO E MORALITA’

Il termine egotismo deriva dall’uso che ne fecero i moralisti inglesi per indicare la tendenza a una sorta di culto di se stessi, per cui le proprie esperienze e vicende personali appaiono come le uniche valide e degne di considerazione.
In senso meno negativo, indica anche una concezione della vita morale che considera il perfezionamento individuale come norma principale di condotta.

EGOISMO, ALTRUISMO E MORALITA’
L’egoismo è un termine creato verso il 1830 da Auguste Comte (1798-1857), filosofo francese fondatore del positivismo, per indicare la tendenza dell’uomo a fare di se stesso, come individuo, il punto di riferimento di tutti i valori.
Tuttavia, nei sistemi positivistici è stato messo in rilievo che l’altruismo è un istinto naturale non meno che l’egoismo. L’egoismo tende alla conservazione dell’individuo, l’altruismo è alla base della conservazione della specie e, nelle sue forme più evolute, del mantenimento e dello sviluppo della società umana.
Kant distingue un egoismo logico, per cui l’individuo giudica inutile sottoporre il proprio pensiero alla verifica del consenso o del dissenso degli altri; un egoismo estetico, per cui il criterio assoluto del bello è il proprio gusto personale; un egoismo morale, per cui il vantaggio personale diventa il fine supremo della condotta.

















LETTERATURA, SCIENZA, ARTE E FILOSOFIA

COSTRUTTORI DI BELLEZZA

LEONARDO DA VINCI (Vinci, Firenze, 1452 – Castello di Cloux, Amboise, Francia, 1519)














Pittore, scultore, architetto, ingegnere, fisico, anatomista, musicista, scrittore, filosofo, fu detto dal Vasari “un’incarnazione della divinità sulla terra”. Egli è veramente uno degli uomini più rappresentativi dell’umanità, per ingegno e squisitezza dell’arte, saggezza morale ed estetica, infinita scienza. Il suo “Trattato della pittura” fu pubblicato nel 1631.
I moltissimi suoi manoscritti, dispersi, cercati in tutta l’Europa e ritrovati, sono stati, poi, riuniti e pubblicati a cura di una apposita Commissione nominata dal governo italiano e portano il nome di Codici.
La grandezza del pittore è in poche ma divine pitture: il “Battesimo di Cristo”, “L’Annunciazione” a Firenze, “L’Annuciazione” a Parigi, il “Ritratto di Ginevra Benci”, la “Madonna del garofano”, la “Madonna Benois”, “L’Adorazione dei Magi”, il “San Girolamo”, la “Sant’Anna”, la “Vergine delle rocce” a Parigi, “La Vergine delle rocce” a Londra, il “Ritratto di musico”, la “Donna con l’ermellino” o “Ritratto di Cecilia Gallerani”, il “Ritratto di dama” o “La Belle Ferroviere”, il “Cenacolo”, la “Sala delle Asse”, il “Ritratto di Isabella d’Este”, la “Testa di fanciulla” o “La Scapigliata”, la “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino e San Giovannino” a Londra, la “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnello” a Parigi, il “San Giovanni Battista”, il “Bacco”, la “Gioconda”.











I Disegni sono parte in Italia (a Firenze, Torino, Venezia, Milano, Roma), altri nel resto d’Europa (Londra, Cambridge, Parigi, Chatsworth, Rotterdam, Weimar, Budapest); ed altri ancora in America (New York).
Il Codice Atlantico è la più imponente e spettacolare raccolta; inizialmente detta ‘atlantica’ per le sue dimensioni, perché in unico volume; oggi si presenta ricomposto in 12 volumi; sottratta all’Italia da Napoleone nel 1796, fu riportata in Italia da Andrea Canova; si trova a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana: contiene parte dei disegni e degli scritti autografi.
La Raccolta di Windsor è costituita da circa 600 disegni e scritti autografi.
I Manoscritti d’Italia, riportati dalla Francia in Italia dall’allievo Francesco Melzi, poi in parte dispersi, corrispondono a circa un quinto dell’intera mole delle carte lasciate da Leonardo; si dividono in
- Codice Trivulziano, a Milano, Biblioteca del Castello Sforzesco.
- Codice sul volo degli uccelli a Torino, Biblioteca Reale.
I Manoscritti di Francia, 12 volumi, sottratti nel 1796 dalla Biblioteca Ambrosiana per ordine di Napoleone, sono ancora a Parigi, Institut de France.
I Codici di Madrid, due volumi, sono nella Biblioteca National.
Il Codice Arundel, è una serie di fascicoli con disegni; si trova a Londra, presso il British Museum.
I Codici Forster I-II-III, sono tre piccoli taccuini tascabili con appunti, disegni, studi; sono a Londra, presso il Victoria and Albert Museum.
Il Codice Hammer o Codice Leicester, consta di 36 fogli; conosciuto anche con il nome di Codice Leicester, dal nome dell’antico proprietario che lo acquistò in Italia nel primo Settecento; poi divenne proprietà del petroliere americano Hammer; è ora a Seattle, nella collezione di Bill Gates.
Il Libro di Pittura è nella Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Sono così risorti nella loro piena forza culturale le opere e il pensiero di Leonardo: specialmente il suo pensiero che, precorrendo la rivoluzione galileiana, spaziò per i regni della natura, interpretando le leggi e i segreti sui quali doveva poggiare saldamente l’edificio della scienza moderna.
Nel complesso delle osservazioni e delle esperienze, Leonardo passa in rassegna tutto il mondo della scienza e delle sue applicazioni: l’ottica, la meccanica, la termologia, il magnetismo, l’acustica, l’idrodinamica, l’architettura, l’ingegneria, la geologia, la meteorologia, la botanica, la fisiologia, l’anatomia umana, il volo degli uccelli, il moto delle onde, l’invenzione di ordigni militari, di macchine, di utensili di ogni importanza e di ogni specie.










Non mancano nelle sue opere osservazioni psicologiche e morali.
Nella pittura, Leonardo segna il passaggio dal realismo plastico e un po’ geometrico dei fiorentini del ‘400 alla maniera più ricca e approfondita del ‘500; per mezzo del chiaroscuro sfumato, egli immerge la figura umana nello spazio esterno, tuffandola in un ambiente pieno d’ombra e di mistero.
Grazie a questa nuova tecnica, il paesaggio acquista un’importanza nuova, sciogliendosi dalla rigidità di linee della scuola fiorentina e facendosi ambiente atmosferico avvolgente, togliendo la pittura dalla rappresentazione del mondo eroico, tutto imperniato sull’uomo, e avviandola ad una più vasta visione cosmica.
(Si vedano “La Vergine delle rocce” e “L’Annunciazione” al Museo del Louvre e “L’Annunciazione” e “L’Adorazione dei Magi” alla Galleria degli Uffizi di Firenze).













Leonardo cercò, sempre più con passione, di approfondìre lo studio della rappresentazione pittorica. La realtà, secondo lui, al di là degli ideali rinascimentali di armonia e compostezza formale, doveva essere colta nella sua concreta e viva fenomenalità, raggiungibile e rappresentabile solo attraverso precise conoscenze scientifiche delle problematiche legate alla visione. Tutte le sue opere milanesi sono, infatti, caratterizzate da una grande fluidità spaziale e dalla straordinaria capacità evocativa della luce, che conferiscono forma, dimensione, movimento ed espressività alle immagini.
Negli straordinari disegni del “Diluvio”, ancora una volta prendono vita, in immagini, le estreme meditazioni di Leonardo sui fenomeni della natura e dell’universo.

Lo scienziato Leonardo ci racconta i suoi studi con i suoi manoscritti, ricchi di disegni e progetti, pensieri, osservazioni, domande, tutti con calligrafia minuta che procede da destra verso sinistra. Cultura che abbraccia numerosi rami del sapere. Egli resta veramente motivo di infinito stupore e commovente ammirazione; la sua intenzione è quella di documentare la sua esperienza e poi ragionare sui fenomeni e spiegare le cause.
Leonardo non è un vero e proprio filosofo, è uno scienziato o, più esattamente, un grande naturalista. Tutta la sua attenzione è rivolta ai fenomeni della natura ma il suo indagare non è freddo e obiettivo, come quello di uno scienziato. Egli osserva la natura con entusiasmo religioso ed ansia, perché dentro i fenomeni che indaga, nella sostanza di ogni cosa terrena, vuole rintracciare il disegno e l’impronta creativa di Dio. Come tutti gli uomini del Rinascimento, Leonardo sente e scorge Dio nella terra e nella “deità che abita tra gli uomini per opera dell’arte”.
In realtà, egli è lontano dal mondo chiuso e unilaterale degli umanisti, dei ricercatori del mondo classico. Gli stessi poeti suoi contemporanei hanno ben poco a che fare con lui, gli sono lontani; eppure, gli scritti di Leonardo, così frammentari, hanno un fascino misterioso che non s’incontra nei letterati e poeti del suo tempo.
Spesso, le sue meditazioni sono rivolte alle divine leggi che governano il mondo e alla brevità della vita e delle cose terrene, come nell’annotazione:

“L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultimo di quella che andò, e la prima di quella che viene: così il tempo presente”.

Chi ha scritto questi pensieri ha espresso la tristezza e il desiderio verso l’eterno; ha dato alla sua anima la voce di una sentenza biblica, di un profeta isolato che, con il suo pensiero, tende ad un’unica figura creatrice. Leonardo scriveva anche:

“Non si volge chi a stella è fisso”.

Troppo vaste e profonde erano le sue meditazioni perché egli, sentendo un legame tra tutte le manifestazioni possibili nel creato, potesse fermarsi a fissarne una sola; da ciò si spiega anche la sua esistenza errabonda, il suo spirito alacre e la ricchezza delle idee, le poche realizzazioni a cui pervenne e la naturale tendenza a lasciare inespresse, o soltanto avviate, molte opere ideate. Egli attendeva che la sua tumultuosa e gigantesca mente potesse man mano definire le sue osservazioni e i suoi studi sempre meglio, e collocarle dentro una organica e soprannaturale unità di chiarimento che facesse comprendere la mano di Dio.
Ma è bene osservare che l’importanza e il valore delle sue pagine nascono proprio dalla vasta ricchezza del suo spirito, della fantasia, quasi una scultura della parola da applicare nella spiegazione dei misteri del mondo, delle cause, e giungere a Dio, con un’anima poetica, che vuole conoscere l’armonia e la bellezza, come lui fa capire nei passi di “Ansia di sapere”, “Ingegno e memoria”, “Il diluvio”, “L’esperienza”, “Il ciclo della vita”, “Pensieri sul volo”, “Potenza dei fiumi”, “Una parabola”, “Sentenze”, “Favole”:

da “La caverna”- : “ (…) E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e strane forme fatte dalla artificiosa natura, raggiratomi alquanto in fra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna, dinanzi alla quale, restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso piegandomi in qua e là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa, questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era, e stato alquanto, subito si destarono in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là entro fussi alcuna miracolosa cosa”.
da “Pensieri - Sentenze”:
“Dov’è più sentimento, lì è più, ne’ martíri, gran martíre”.
“Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire”.
“Non si può avere maggiore signoria, che quella di se medesimo”.
“Chi disputa allegando l’autorità, non adopera lo ingegno, ma più tosto la memoria”.
da “Favole”:
- “L’ostrica e il granchio” – “Questa, quando la luna è piena, s’apre tutta, e quando il granchio la vede, dentro le getta qualche sasso o festuca: e questa non si può riserrare, ond’è cibo d’esso granchio. Così fa chi apre la bocca a dire il suo segreto, che si fa preda dello indiscreto uditore”.

-
“La pietra” – “Una pietra, nuovamente per l’acqua scoperta di bella grandezza, si stava sopra un certo loco rilevato, dove terminava un dilettevole boschetto, sopra una sassosa strada, in compagnia d’erbe, di vari fiori di diversi colori ornati; e vedea la gran somma delle pietre, che, nella a sé sottoposta strada, collocate erano. Le venne desiderio di là giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:”Che fo io qui con queste erbe? Io voglio con quelle mie sorelle in compagnia abitare. E giù lasciatasi cadere, infra le desiderate compagne finì suo volubile corso. E stata alquanto, cominciò a essere dalle rote de’ carri, dai piè de’ ferrati cavalli e de’ viandanti a essere ij continuo travaglio: chi la voltava, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo, quando stava coperta da fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s’era, in nel loco della solitaria e tranquilla pace. Così accade a quelli, che dalla vita solitaria, contemplativa, vogliono venir abitare nella città, infra i popoli pieni d’infiniti mali”.


-
“La noce, la cornacchia e il campanile “ -: “Trovandosi la noce essere dalla cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu liberata dal mortale suo becco; pregò esso muro, per quella grazia, che Dio li avea dato dell’essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e di tanto onorevole suono, che la dovessi soccorrere: perché, poiché la non era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella grassa terra ricoperta delle sue cadenti foglie, che non la volessi lui abbandonare: imperoch’ella trovandosi nel fiero becco della fiera cornacchia, ch’ella si votò, che scampando da essa, voleva finire la vita sua in un picciolo buco. Alle quali parole il muro, mosso a compassione, fu costretto ricettarla nel loco, ov’era caduta. E in fra poco tempo, la noce cominciò aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli, in breve, levati sopra lo edifizio, e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e cacciare le antiche pietre de’ loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e indarno pianse la cagione del danno, e in breve aperto, rovinò gran parte delle sue membra”.












































Blaise PASCAL (1623 - 1662)











Matematico, fisico, filosofo e scrittore francese. Nella sua “Apologia della religione cattolica”, rimasta incompiuta per la morte prematura del suo autore, e pubblicata sotto il titolo di “Pensieri”(dai suoi amici della cosiddetta scuola di Port-Royal, nel 1670, dopo numerosi ritocchi) Pascal dice che gli argomenti della filosofia e della teologia non hanno presa sul ‘libertino’, sull’incredulo lontano da Cristo. I discorsi dei teologi possono consolidare la certezze del credente, non svegliare nel miscredente l’inquietudine e produrre quella presa di coscienza sulla quale si radica e cresce l’esigenza religiosa.
L’esperienza e la storia dell’uomo portano alla luce costantemente i contrasti e le contraddizioni in cui la vita stessa di ognuno di noi è coinvolta. Pascal mostra alla fine che il richiamo alla trascendenza e la fede nel Cristo mediatore danno senso a un dramma che risulterebbe altrimenti assurdo e senza soluzione.
Più che alla ragione Pascal si rivolge, dunque, in questa indagine, alle “ragioni del cuore”; e più che all’esprit de geometrie, all’esprit de finesse”. Egli dice che i limiti della ragione recano l’impossibilità di assorbire l’uomo “nell’ordine della geometria”. L’uomo, essere contraddittorio, cerca soprattutto la verità e non può mai raggiungerla; da essa lo tengono lontano le “potenze ingannatrici” che sono nella sua stessa natura: i sensi, la volontà, l’amore di sé, la ragione e l’immaginazione, “maestra di errore e di falsità (!?), lo confondono e lo fuorviano.
“Ciò che è vero al di qua dei Pirenei, è falso al di là” – scrive Pascal.
E poiché nessuno dei sistemi filosofici può soddisfarlo, l’uomo tenta di sfuggire alla sua condizione con il divertimento, gli svaghi, le distrazioni, o lasciandosi assorbire dalle occupazioni. Ma, malgrado tutto ciò e proprio perché è consapevole, l’uomo è grande: “L’uomo non è che una canna, la più nobile della natura, ma una canna che pensa. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero”.
Pascal è stato avvicinato ai grandi maestri dell’esistenzialismo e dell’irrazionalismo moderni, da Kierkegaard a Nietzsche, a Dostoevskij.
“I Pensieri” di Pascal è un’opera di confronto serrato in cui si scontrano le esigenze estreme della scienza e della religione (lui matematico e fisico, studioso del “vuoto”); un grande capolavoro letterario che getta sulla scena un nuovo eroe: l’uomo.
La coscienza è il sigillo e l’impronta della incontestabile superiorità dell’uomo: abisso di grandezza e di piccolezza, né angelo né bruto, enigma vivente, l’uomo può trovare la spiegazione di se stesso solo nella religione. E, fra tutte le religioni, la cattolica è quella che rende meglio conto della nostra natura, in quanto spiega la nostra grandezza con la creazione divina, la nostra debolezza col peccato originale e la possibilità del riscatto con la Croce di Cristo.
Il celebre argomento della “scommessa” che Pascal pone è:” Vale la pena di rischiare una vita disordinata e spregiudicata, nel libero soddisfacimento degli istinti, piuttosto che per un premio di fede religiosa e di razionale moralità nei comportamenti? ”. Se comunque, la fede ci sarà data, allora capiremo anche il valore di quelle altre prove del libro biblico, con la figura raggiante del Figlio di Dio con cui si doveva concludere l’opera di Pascal: è Lui, il Cristo, il punto di arrivo di questo itinerario e la soluzione di tutti i drammi dell’uomo.

Riprendo e sintetizzo, perché li condivido pienamente, i commenti che il prof. Ugo M. Palanza fa sull’opera di Pascal, in “Capolavori della letteratura straniera” – Società Edit. Dante Alighieri 1957.

Siamo quindi di fronte ad un opera piena di ricchezza di pensiero e di viva e palpitante ispirazione che potrebbe essere posta accanto alle “Confessioni” di S. Agostino senza esitazione.
Pascal trae dal suo travaglio intimo il motivo delle sue riflessioni; fa di se stesso lo specchio dell’umanità; è convinto che l’umanità è partecipe del suo dramma e comincia col rivolgersi ai “libertini” che vivono indifferenti ai problemi dell’anima: “L’immortalità dell’anima è una cosa che c’importa tanto, che ci riguarda così profondamente, che bisogna aver perduto completamente la ragione per restare indifferenti di fronte alla conoscenza del nostro destino”. A questi numerosi “apatici” egli si rivolge soprattutto, in quel suo grande desiderio di perquisire nei meandri del nostro essere alla ricerca di motivi che rompano l’abulia, costringano a mettere a fuoco e fissare sulla strada giusta il problema “cristiano” della nostra esistenza: perché fuori dal Cristianesimo non c’è salvezza.
Cos’è questo piccolo essere che si dice uomo e che conosce il senso del dolore e della felicità, del bene e del male, che contempla le altezze ed è inchiodato sulla terra? – chiede Pascal . Non può essere altro che quello stesso Adamo che uscì perfetto dalle mani del Creatore e che divenne imperfetto e debole per sua scelta, incapace di risalire e rinascere con le sue forze nella vita senza guardare e ritornare verso gli insegnamenti del suo Creatore.
Pascal non muove da una verità bella e pronta da presentare ai miscredenti; egli muove dalla vita stessa, dalle nostre attese, dalle pene e dalle gioie, dalle miserie e dalle grandezze: pone gli enigmi davanti agli occhi di tutti, perché ci sia accorga della necessità che non c’è altra soluzione, all’infuori della scelta di vita cristiana.
I “Pensieri”, con i quali Pascal fissa i caratteri della nostra natura umana sono scolpiti con potenza di realismo psicologico, con esattezza dialettica e adeguazione immediata alla tormentata essenza umana. Egli scrive:

“Un uomo si mette alla finestra per vedere i passanti; se io passo di là, posso dire che si è messo alla finestra per vedere me? No, non pensa a me in particolare, guarda intorno e vede tante cose.
Ma chi ama qualcuno a causa della sua bellezza, l’ama forse? No, poiché il vaiolo, che distrugge la bellezza senza uccidere la persona, farà che egli non l’amerà più.
E se mi si ama per il mio ingegno, per la memoria, si ama forse “me”? No, perché io posso perdere quelle qualità, senza perdermi io stesso. Dov’è dunque questo “io”, se non è nel corpo né nell’anima?...Posso ben concepire un uomo senza mani, senza piedi, testa…ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto…Il pensiero fa la grandezza dell’uomo. L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di quel che l’uccide, perché sa di morire e conosce la forza che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla.
Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ lì che dobbiamo elevarci e non nello spazio e nel tempo, che non sapremmo riempire. Lavoriamo, dunque, a ben pensare: ecco il principio della morale”.

Ma è cosa facile lavorare a ben pensare? E quando si è detto che la dignità dell’uomo è nel pensiero si è detto tutto dell’uomo? Purtroppo, non si è detto tutto! L’uomo è un campo di battaglia: un campo di battaglia delle più singolari contraddizioni; un istinto ci innalza ma le contraddizioni e le miserie ci sopravanzano e sono infinite. Pascal dice:
“Se non ci fossero che la ragione, senza le passioni…Se non ci fossero che le passioni, senza la ragione…Ma avendo l’una e le altre, egli (l’uomo) non può essere senza guerra, non potendo avere la pace con l’una, se non essendo in guerra con le altre; così è sempre diviso e contrario a se stesso… Questa duplicità dell’uomo è così evidente, che alcuni hanno pensato che noi abbiamo due anime”. .. e continua ironizzando sulle varie possibilità: un’anima per la verità, un’altra asservita ai sensi; una per la felicità, un’altra per il male e la miseria; una per l’infinito, un’altra per il finito ed il contingente; una che ci porta verso Dio, un’altra che ci getta sul piano dei bruti. Quale filosofo, dunque, può dare una soluzione soddisfacente a questo mistero? Nessuno, in buona fede, può dire di conoscere la soluzione. Ma nel piano soprannaturale della religione, e religione cristiana, si può trovare la soluzione dell’enigma; solo il Cristianesimo può dirci cosa sia questo nostro tendere all’alto e questo nostro stare nel fango; può dirci cosa sia la tristezza della nostra miseria”.

Può dunque l’uomo da solo, con le sue forze, rinascere? La sua rinascita è legata al Cristo: da Lui la grazia, attraverso di Lui la possibilità di risalire l’abisso.
Pascal: “Non conosciamo Dio che per Gesù Cristo. Senza questo Mediatore, è tolta ogni comunicazione con Dio; per Gesù Cristo noi conosciamo Dio”.

Ma quali prove abbiamo della verità della rivelazione cristiana e della divinità di Gesù Cristo? Secondo Pascal le prove sono molte: “per provare Gesù Cristo abbiamo le profezie, che sono prove solide e palpabili. E queste profezie essendosi avverate e dimostrate vere dagli avvenimenti, confermano la certezza della verità e quindi la prova della Divinità di Gesù Cristo”.
E poi ci sono i miracoli, l’altezza della morale evangelica, la prodigiosa propagazione della Buona Novella. Tuttavia queste prove possono apparire non “assolutamente convincenti” se ad esse si guarda con l’occhio freddo della pura ragione. La ragione, con la squallida tendenza alle analisi, può determinare il crollo dell’edificio più bello. Ma ci sono altre ragioni e sono quelle del cuore, che la ragione non conosce, ma che pure esistono e che sono capaci di determinare la conquista della verità in un modo “tutto interiore ed immediato”; con siffatte ragioni, che poi sono un sentimento, occorre prepararsi allo studio delle verità rivelate. Allora ogni dubbio scompare e tutto appare chiaro ed evidente.
E’ questo il senso del misticismo di Blaise Pascal; misticismo che ripete motivi tradizionali, ma che pure ha toni, calore, passione, svolgimento assolutamente nuovi e personali. Si possono dare dimostrazioni naturali dell’esistenza di Dio e della immortalità dell’anima; si può dimostrare che le verità numeriche sono verità immateriali…ma tutte queste conoscenze sono inutili e sterili, senza Gesù Cristo. Senza Gesù si ha un Dio “semplicemente autore di verità geometriche e degli ordini degli elementi”, ma con Gesù “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani diviene un Dio d’amore e di consolazione, un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che lo possiedono, un Dio che fa loro sentire interiormente nel profondo dell’anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza, d’amore; che li rende capaci di avere un fine ben preciso: seguire la sua gloria, la sua creazione, gli insegnamenti di GesùCristo, per cercare di giungere a Lui stesso”.

Gli studiosi di Pascal sentono, in queste parole, l’eco della voce di S. Paoolo e di S: Agostino, ma vi sentono anche l’esempio di un sentimento nuovo, la vena di un’acqua che non può affondare e che riemerge di generazione in generazione.
Le pagine più belle dei “Pensieri” sono quelle in cui quest’acqua purificatrice arriva lenta e sommessa, come in un sogno profetico. Sentite nel “Mistero di Gesù” questo colloquio:
“Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato. Ho pensato a te nella mia agonia, ho versato per te queste gocce di sangue. E mi tenta, più che mettere te alla prova, il pensare se farai bene questa o quell’altra cosa lontana: lo farò io, in te, se occorrerà. Lasciati condurre dalle mie regole, vedi come ho ben guidato la Vergine ed i Santi che mi hanno lasciato agire in loro. Il Padre ama tutto ciò che io faccio. Vuoi tu che io versi sempre sangue della mia umanità, senza che tu dia lacrime? E’ affar mio la tua conversione: non temere e prega con fiducia come per me. Io ti sono presente con la mia parola nella Scrittura, col mio spirito nella Chiesa e nelle aspirazioni, con la mia potenza nei sacerdoti, con la mia preghiera nei fedeli. I medici non ti guariranno, perché alla fine morirai. Ma sono io che guarisco, e rendo immortale il corpo. Soffri le catene e la schiavitù corporali, io per ora non ti libero che da quella spirituale. Io ti sono più amico di questo e di quell’altro; perché ho fatto per te più di loro ed essi non soffrirebbero quel che io ho sofferto da te e non morirebbero per te nel tempo delle tue infedeltà e crudeltà, come ho fatto io e come sono pronto a fare e faccio nei miei eletti nel Santo Sacramento. Se tu conoscessi i tuoi peccati, ti perderesti d’animo”.
“Mi smarrirò, dunque, o Signore, perché io credo alla loro malizia per vostra testimonianza”.
“No, perché io, da cui tu hai avuto la possibilità di conoscere la malizia, te ne posso guarire, e il fatto che te lo dico è segno che voglio guarirti. A misura che li avrai espiati, li conoscerai, e ti sarà detto: “ecco i peccati nascosti e per l’occulta malizia di quelli che tu conosci”.
“Signore, io vi do tutto”.
“Io ti amo più ardentemente di quanto tu non abbia amato le tue brutture, ‘ut immundus pro luto’ (‘affinché l’immondo sia fango’)”.


Isaac NEWTON (1642- 1727)












Fisico, matematico e astronomo inglese. Newton, all’alba del Settecento,con le sue scoperte fondamentali sul calcolo infinitesimale, sulla natura della luce e sulla teoria della gravitazione universale, sui “Principi matematici della filosofia naturale” (1687), il moto dei fluidi, le leggi dell’urto, la teoria delle maree, ha posto le basi e ha fissato i procedimenti della scienza moderna. Oltre all’enorme importanza delle indicazioni metodologiche, che ebbero un’influenza grandissima su tutta la ricerca filosofica a partire dall’illuminismo, occorre anche ricordare che l’immagine dell’universo delineata, per i suoi caratteri di unità e di coerenza, fu il presupposto di larga parte della corrente della filosofia deistica, caratterizzata da una concezione di ”religione naturale” che si proponeva spontaneamente negli esseri umani.
Dopo CopernicoKeplero e Galilei, un problema a cui gli astronomi non riuscivano a trovare una risposta plausibile era quello di spiegare perché un pianeta si muoveva lungo un orbita ellittica e non rettilinea. Alla soluzione pervenne Newton con la scoperta della legge di gravitazione universale, in cui egli disse che :”due corpi si attirano con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza dal sole”.
Così, la grande massa del Sole esercita un’attrazione che costringe un pianeta a variare continuamente la propria direzione di moto (che altrimenti sarebbe rettilineo).
Nei problemi di ottica, Newton scopre la scomposizione della luce nello spettro di colori e sosterrà sempre un ateoria corpuscolare della luce, contro la teoria ondulatoria di Huygens.
Nel 1703, Newton fu eletto presidente della Royal Society, di cui era stato membro già dal 1672.
Nel suo “Trattato di ottica” (1704), Newton si chiedeva:
“Che cosa c’è in luoghi quasi completamente vuoti di materia, e donde deriva che il sole e i pianeti gravitino gli uni verso gli altri, senza che vi sia tra loro nessuna materia densa? Donde viene che la Natura non fa nulla invano, e da dove trae origine tutto quell’ordine e tutta quella bellezza che vediamo nel mondo? A qual fine esistono le comete, e donde viene che i pianeti si muovano tutti in un unico e medesimo modo in orbite concentriche? E che cosa impedisce alle stelle di precipitare le une sulle altre? E’ possibile che l’occhio sia stato costruito senza conoscenza di ottica, e l’orecchio senza nozioni di acustica? Donde viene l’istinto degli animali?”.
Nel suo sbalordimento davanti alla Creazione, Newton domandava: “Non risulta con evidenza dai fenomeni che esiste un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente il quale vede intimamente le cose stesse e le capisce interamente in virtù della loro presenza immediata a se stesso?”.

Pavel Aleksandrovič FLORENSKIJ (1882-1937). Scrittore, fisico e teologo russo.
Uno dei grandi geni del XX secolo, il “Pascal russo”, fucilato in un gulag nel 1937.
Opere: “La colonna e il fondamento della verità”, 1913; “Il significato dell’idealismo”, 1914; “Le porte regali”, 1922).















Pavel FLORENSKIJ (dedicata a)


Eternità, amata solitaria
misteriosa onda in cui si circonda
il corpo in fossa sconosciuta di Pavel
che scrisse sul leggio della chiesa
alla luce della lampada sacra
e il mare e le onde d'estate
e la schiuma e la risacca
d'armonie di silenzio al proprio mistero.

E il tempo andato da qualche parte
lentamente osservato addormentarsi
ed egli fino ad esso a risvegliarlo
dal gulag siberiano, dal gelo perpetuo
e dal cielo nero della bestia staliniana.

"Memorie dei giorni passati, non vi dimentico
non dimenticatemi "
"tutto è stato", "è accaduto", "è successo"
per rischiarare tenebre ed infinito
figlio e padre di un delicato affresco
d'umana volontà pensiero fecondo e grido
di un evangelico nido e calore mistico
negli spazi celesti per sottili confluenze.

Risorgi, albero della vita, figlio delle acque
forza della terra che nutre, statua sonora.

Ettore Mosciàno

Roma, 23 aprile 2003


ORTEGA Y GASSET José Madrid, 1883-1955)










Filosofo e saggista spagnolo. Dopo aver compiuto i suoi studi in Spagna, si recò in Germania dove fu allievo del filosofo neokantiano Hermann Cohen. Dal 1910 al 1936 (quando lasciò la Spagna all’inizio della guerra civile) insegnò metafisica all’università di Madrid e nel 1923 fondò la “Revista de Occidente”, una delle più importanti riviste culturali spagnole della prima metà del Novecento. Visse successivamente in vari paesi europei e negli Stati Uniti, tornando in Spagna nel 1945.
La sua opera, copiosa, definiva un pensiero che si accentrava intorno ad alcuni temi dominanti: il problema della Spagna, la crisi della società moderna, la necessità di una filosofia che superasse le conseguenze del razionalismo. Egli vede la vita umana come “realtà radicale”, intendendola come un rapporto dinamico dell’Io con le cose, che comporta una concezione da Ortega stesso definita “prospettivismo”. Per questa stretta interrelazione, ragione e vita vengono a formare una unità organica, il cui principio fondamentale è la “ragione vitale” (“raziovitalismo”); con essa, Ortega reagisce contro il relativismo e contro il razionalismo, impone l’assoggetamento della ragione alla vita spontanea in quanto la ragione deve servire alla vita e non viceversa e in quanto il pensiero nasce come necessità vitale dell’individuo e come adeguamento alle cose.
Ortega ha avuto molto prestigio in Spagna ed Europa; la sua teoria delle minoranze scelte, che emerge dalla sua “Spagna invertebrata” e nella “Ribellione delle masse” ( in cui lamenta la perdita dei valori che solo una minoranza può possedere e imporre), e la difesa dell’antirealismo dell’arte contemporanea (che fugge dalla realtà fino ad affermarsi come libero gioco) ha influito su una generazione di scrittori spagnoli, apportando in esse un senso colto ed aristocratico dell’arte, sfociato spesso nell’intellettualismo.
Politicamente Ortega y Gasset è sostenitore della costruzione dell’Europa a grande Stato unitario.
Renato Cristin, in un articolo su “il pungolo.com”, “Il poeta che sapeva scrivere”, del 17 luglio 2003, a proposito di Ortega, dice:
“Per Ortega i limiti dell’uomo sono i limiti del suo linguaggio, come diceva anche Ludwig Wittgenstein, ma con altri presupposti e altri obiettivi. Il linguaggio è sempre limitato da una frontiera di ineffabilità” e perciò va compreso come massimo sforzo di trascendenza umana. L’uomo, “tremendo animale lirico”, si protende verso la parola con una tensione appassionata e spasmodica che coinvolge la sua intera esistenza. Ecco perché la filosofia del linguaggio deve abbandonare l’atteggiamento della semiologia, che si rivolge alle parole come mere unità di significato, e adottarne una nuova, che potremmo definire fenomenologica (e che Ortega accetterebbe), che osserva l’orizzonte delle parole e delle persone. Infatti il contesto è parte essenziale della parola, e la parola è “attività, dinamismo, pressione di un contorno su di essa e di essa sul contorno”, come diceva Ortega y Gasset.


Opere di Ortega y Gasset: “Meditazioni sul Chisciotte”, 1914; i saggi su lo “Spettatore”, 1916-34; “Spagna invertebrata”, 1921; “Il tema del nostro tempo”, 1923; “La disumanizzazione dell’arte”, 1925; “Che cos’è la filosofia”, 1929; “ La ribellione delle masse”, 1930; “Goethe dall’interno”, 1933; “Intorno a Galileo”, 1933; “Storia come sistema”, 1941; i volumi pubblicati postumi “L’uomo e la gente”, del 1957, “Meditazione d’Europa”, del 1960.


- Luigi PAREYSON (Piasco 4.2.1918 – Milano 8.9.1991)











Filosofo italiano. Partendo dall’esistenzialismo, che fu uno dei primi a diffondere in Italia, e dall’approfondimento dell’idealismo tedesco, elaborò un “personalismo ontologico”, secondo cui la verità è inoggettivabile, prendendo forma solo nell’ambito di una ricerca personale che è in pari tempo rivelativa e storica. In estetica ha opposto un criterio di formatività a quello dell’intuizione crociana. Ha diretto la “Rivista di estetica”.
Dopo aver insegnato all’Università di Pavia (1951) è divenuto ordinario di estetica a Torino (1955). Ha cercato di portare i temi della filosofia dell’esistenza nell’ambito della problematica dello spiritualismo cristiano. Particolarmente importanti sono le sue ricerche di estetica, sul piano storico e su quello teoretico.

Opere principali:
- Studi sull’esistenzialismo (1943)
- Esistenza e persona (1950)
- Estetica, teoria della formatività (1954)
- Teoria dell’arte (1965)
- I problemi dell’estetica (1966)
- L’estetica di Kant (1968)
- Verità e pensiero tecnico (1968)



















Piero MARTINETTI (Pont Canadese, Torino, 21.8.1872 – Castellamonte, Torino, 22.3.1943).


“BREVIARIO SPIRITUALE” di Piero MARTINETTI.

(Edizioni Utet “gli Imprescindibili”, 2006. Prefazione di Anacleto Verrecchia. Euro 15,00).

“Una profonda ed appassionata disamina del cammino morale verso la saggezza e la bellezza spirituale” di Ettore Mosciàno.












Non concordiamo con l’orientamento indicato nella prefazione da Anacleto Verrecchia, a proposito della scelta religiosa dell’autore del “Breviario”. Il Verrecchia richiama la figura di Martinetti come il più importante epigono italiano di Schopenhauer (che era induista) e lo indica come seguace della religione buddista. Non ci informa che nei libri successivi del Martinetti “Gesù Cristo e il Cristianesimo”, del 1934, e “Il Vangelo”, del 1936, il filosofo piemontese ha sempre più mostrato il suo discostamento dalle filosofie religiose orientali, restando, è vero, un anticlericale, ma immerso nel cammino della ricerca di Verità nella figura di Gesù Cristo.
Martinetti sosteneva che la Chiesa aveva rinnegato i principi di Cristo; ma lui, tuttavia, con la sua religiosità laica, si rimetteva a “Colui che solo può giudicare della verità e dell’errore, perché Egli solo è la Verità”.
La filosofia di Martinetti ha comunque ragione esistenziale e convinzione profonda in una spiritualità che bisogna guadagnarsi sulla terra, con le proprie scelte fatte quotidianamente, attraverso le buone azioni e i comportamenti virtuosi, con temperanza, pazienza, perseveranza, obbligo dei doveri familiari, rispetto per gli animali e per tutte le tradizioni religiose.
La sua tesi di laurea in filosofia fu “Il sistema Sankhya”: uno studio sulla religione induista. Successivamente, Martinetti si convince sempre più che “nell’educazione religiosa all’umanità vi sia il “regno dei fini” di cui parlava Kant. Le qualità da imitare sono quelle che si trovano negli uomini semplici, come quelli che figurano nei Vangeli o tra i profeti: nostre guide terrene di spiritualità e direzione morale.
Seppure spinto dall’idea di salvare la moralità e la spiritualità, insite nel messaggio di Gesù Cristo, Martinetti fa però di questo Maestro un mito, una leggenda edificante, ma non riconosce autorità alla Chiesa, ai dogmi, alle cerimonie “sacre”. Per lui Gesù non era figlio di Dio resuscitato da morte, ma profeta e Messia.
La spiritualità di Martinetti è tutta improntata nelle azioni sulla Terra, ma il disegno e il desiderio del traguardo erano di un’anima cristiana, che anelava ad un’armonia con la trascendenza, a cui non ha dato volutamente unica figurazione.
In Martinetti, pur nella sua grande riflessione, coincidono il pensiero puro, autentico e religioso, con la più perfetta laicità. Sublimando una filosofia morale di semplice applicazione nella vita quotidiana, Martinetti auspicava che tale filosofia sostituisse la predicazione e le cerimonie ecclesiastiche.

Il valore del suo “Breviario spirituale” sta nel fatto che Martinetti traccia ragionati percorsi del pensiero religioso laico, enunciando modalità per formarlo e ordinarlo, tanto da poterne far uso con semplicità nelle azioni quotidiane.
Egli ci espone il pericolo degli istinti e ci invita a considerare la ragione come fine ideale, ben sapendo che essa ha limiti soggettivi; ciononostante, egli è convinto che con la razionalità e l'autodisciplina si può raggiungere l’unità per una spiritualità collettiva.
La ragione negli uomini è alla superficie della loro attività, nell’usare i mezzi e coordinarli. Le forze che animano queste attività provengono da impulsi istintivi ed oscuri, di cui l’uomo spesso non sa darsi e non cerca ragione nel fine come bene umanitario. L’uomo conosce solo il bene come produzione progressiva utile, ma limitata dalla sua singola mentalità e visione d’orizzonte, in una illusione morale che oggi è esaltazione e domani una delusione. Uno stato di contentezza ed entusiasmo si alterna ad uno di tristezza e scoraggiamento; e così per tutto il suo avvenire.
Perciò, ogni atto umano è un errore ed un ammaestramento. Noi non possiamo vedere in questo progresso alcun limite definitivo.
Dove trovare la ragione superiore, definitiva?
Dovunque noi volgiamo lo sguardo non troviamo nella vita umana niente di stabile e di definitivo: l’illusione dura quanto la vita.
Per questo non vi è, almeno nella condotta e nella opinione individuale, una morale: ma vi sono concezioni e giudizi morali diversi secondo le classi sociali e le diverse condizioni. Ciò dipende dalla mancanza di comprensione della vita e delle altre condizioni personali, oltre la nostra.
C’è una incapacità di allargare lo sguardo della nostra visione.
Martinetti dice: “Il bene e la ragione sono come un faro di luce che ciascuno guarda soltanto da lontano, attraverso i preconcetti della sua condizione e del suo tempo”.

Le considerazioni fatte finora parrebbero condurci nel vicolo cieco dell'individualismo, dell'anarchia e del relativismo etico; ma Martinetti ci invita a comprendere il significato e il valore della vita, ed indica quale deve essere la volontà, quali le scelte consapevoli per motivati percorsi di sentieri spirituali.

Lo spirito dell’uomo non sa elevarsi al di là della barriera che la vita associativa e lavorativa, delle comunicazioni generiche e popolari, hanno costruito intorno al suo essere fisico.
Se si guarda al mondo intero con sguardo più ampio e comprensivo, le nostre azioni risulteranno più equilibrate e fatte con più saggezza. Questa concordanza di intenti e di esperienze ci avvicina ad una stabilità e ad una unità che non potranno essere sensibilmente alterate e che ci porteranno molto più vicino al concetto di ragione; cosicché tutte le volontà dell’uomo cooperino armonicamente, avendo dinnanzi la direzione cardinale della vita con cui misurare gli affetti e le azioni.

L’uomo è tanto più libero quanto è ragionevole e non si lascia andare agli impulsi delle passioni e delle cupidigie: questo lasciarsi andare non è libertà, ma insensatezza di chi non conosce o vuol conoscere la causa del suo modo di agire.

L’ideale unità e la consapevolezza, di essere e di agire in rapporto continuo con l’umanità e il mondo, danno all’uomo la possibilità di non lasciarsi condizionare dai poco significativi rapporti quotidiani di svago, d'intrattenimento e di ricerca del piacere sessuale. La ragione si solleva sopra i luoghi e i tempi e ci conduce oltre i momenti e le passioni con un linguaggio di significato più alto, oltre le miserie, le vanità e l’amarezza, per una serenità più grande ed una maggiore libertà interiore.
Se c’è questa volontà, ci si serve dei beni terreni giudicandoli adeguatamente per ciò che valgono nelle limitazioni particolari del momento, con un consapevole dominio di se stessi.
Il cammino dell’uomo nella sua vita, allora, sarebbe aperto ad un orizzonte estremamente potente dello spirito, mai definitivo, ma tuttavia in tensione comune e bene comune di libertà e di ragione.
Le religioni sono tradizioni di vita razionale. Nell’umanità vi sono tradizioni di saggezza e di ragione a cui l’uomo può fare riferimento e svolgere le più alte facoltà che ha.
Queste tradizioni di saggezza morale sono le grandi religioni. Esse, sebbene possano essere state corrotte dalle loro istituzioni nei luoghi e nei tempi, come qualsiasi cosa umana, hanno il merito inestimabile di farci capire “che il fine ed il valore vero della vita sono al di là della vita” – dice Martinetti. Per cui, anche quando la scienza con le sue scoperte e i suoi teoremi, nel suo progresso, cerca di scalzare la fiducia nelle tradizioni religiose e nelle loro essenziali affermazioni, l’uomo tornerà sempre con assetata volontà e desiderio a cercare spiegazioni e risposte proprio in queste tradizioni, in ciò che lo lega alle storie millenarie dei popoli, alle attese di una superiore rivelazione di luce, di saggezza e armonia con il suo passato storico religioso, perché di esso fa parte e di esso hanno fatto parte gli altri uomini.

Intorno ai nobili spiriti di coloro che ci hanno preceduto, e che hanno ragionato su queste tradizioni, è il cammino ragionevole e volenteroso di tutti gli altri uomini futuri; è a questi ultimi che vengono lasciate le opere e la cultura, come bene collettivo che non può morire.
Il filosofo Nicola Abbagnano trattando della filosofia di Martinetti disse che era “una specie di misticismo della ragione”.
Nel “Breviario spirituale”, come ben scrive Vittorio Mathieu in quarta di copertina, “Martinetti segue l’uomo nel suo elevarsi dal cieco impulso al dominio razionale di sé in cui consiste la vera libertà… La sfiducia nel valore della vita non può essere superata che con la contemplazione dell’Eterno e la convinzione che l’uomo è destinato a trovare il suo riposo in qualcosa che è al di sopra dell’umanità stessa”.
Bisognerebbe anche rileggersi cosa scriveva Giovanni Papini, nel clima culturale di quell'epoca, nella introduzione alla sua "Storia di Cristo" (che è del 1921, riferendosi ad altri autori; Martinetti pubblicherà il suo "Breviario spirituale" nel 1923). Papini,in "Storia di Cristo", scriveva già allora queste parole:


“Da cinquecent’anni quelli che si dicono ‘spiriti liberi’ perché hanno disertato la Milizia per gli Ergastoli smaniano per assassinare una seconda volta Gesù. Per ucciderlo nei cuori degli uomini.
Appena parve che la seconda agonia di Cristo fosse ai penultimi rantoli vennero innanzi i necrofori”. (…) “cervelli aerostatici che credevano di toccare le sommità del cielo montando nel pallon volante della filosofia e di metafisica si armarono – l’Uomo lo vuole! – come tanti crociati contro la Croce. Certi frottolanti svolazzatori fecero vedere in candela, con una fantasia da far vergogna alla famosa Radcliffe, che la storia degli Evangeli era una leggenda attraverso la quale si poteva tutt’la più ricostruire una vita naturale di Gesù, il quale fu per un terzo profeta, per un terzo negromante e per quell’altro terzo arruffapopoli; e non fece miracoli, fuor della guarigione ipnotica di qualche ossesso, e non morì sulla croce ma si svegliò nel freddo della tomba e riapparve con arie misteriose per far credere d’aver risuscitato. Altri dimostravano, come quattro e quattro fa otto, che Gesù è un mito creato ai tempi di Augusto e di Tiberio e che tutti gli Evangeli si riducono ad un intarsio inabile di testi profetici. Altri rappresentarono Gesù come un buon uomo ma troppo esaltato e fantastico, ch’era stato a scuola dai Greci, dai Buddisti e dagli Esseni e aveva rimpastato alla meglio i suoi plagi per farsi credere il Messia d’Israele. Altri ne fecero un umanitario maniaco, precursore di Rousseau e della divina Democrazia: uomo eccellente, per i suoi tempi, ma che oggi si metterebbe sotto la cura d’ un alienista. Altri, infine, per farla finita per sempre, ripresero l’idea del mito e a forza di almanaccamenti e comparazioni conclusero che Gesù non era mai nato in nessun luogo del mondo.
Ma chi avrebbe preso il luogo del grande Sbandito? Profonda ogni giorno di più era la fossa eppure non riuscivano a sotterrarlo tutto.
Ed ecco una squadra di lampionai e riquadratori dello spirito a fabbricar religioni per il consumo degli irreligiosi. Per tutto l’Ottocento le sfornarono a coppie e mezze dozzine per volta. La religione della Verità, dello Spirito, del Proletariato, dell’Eroe, dell’Umanità, della Patria, dell’Impero, della Ragione, della Bellezza, della Natura, della Solidarietà, dell’Antichità, dell’Energia, della Pace, del Dolore, della Pietà, dell’Io, del Futuro e via di seguito. Alcune non erano che raffazzonamenti di Cristianesimo scoronato e disossato, di Cristianesimo senza Dio; le più eran politiche o filosofie che tentavano di mutarsi in mistiche. Ma i fedeli eran pochi e stracco l’ardore. Quelle ghiacciate astrazioni, benché sostenute talvolta da interessi sociali o da passioni letterarie, non riempivano i cuori da’ quali s’era voluto scerpere Gesù.
Si tentò, allora, di accozzare dei facsimili di religioni che avessero, meglio di quelle altre, ciò che gli uomini cercano nella religione. I Liberi Muratori, gli Spiritisti, i Teosofi, gli Occultisti, gli Scientismi cedettero d’aver trovato il surrogato infallibile del Cristianesimo. Ma codesti miscugli di superstizioni muffose e di cabalistica cariata, codesti guazzetti di razionalismo sciupato e di scienza andata a male, di simbolica scimmiante e di umanitarismo acetoso, codeste rattoppature malfatte di buddismo d’esportazione e di Cristianesimo tradito, contentarono qualche migliaio di donne a riposo, di bipedes asellos, di condensatori del vuoto e fermi lì.
Intanto, tra un presbiterio tedesco e una cattedra svizzera, si veniva apprestando l’ultimo Anticristo. Gesù, disse costui scendendo dall’Alpi al sole, ha mortificato gli uomini; il peccato è bello, la violenza è bella; è bello tutto quello che dice di si alla Vita. E Zarathustra, dopo aver buttato nel Mediterraneo i testi greci di Lipsia e l’opere di Machiavelli, cominciò a saltabeccare, con quella grazia che può avere un tedesco nato da un pastore luterano e sceso allora allora da una cattedra elvetica, ai piedi della statua di Dioniso. Ma benché i suoi canti fossero dolci all’orecchio, non riuscì mai a spiegare cosa fosse questa adorabile Vita alla quale si doveva una parte tanto viva dell’uomo qual è il bisogno di reprimere i propri istintivi bestia, né seppe dire in qual maniera il Cristo, il Cristo vero degli Evangeli, si contrappone alla vita, lui che vuol farla più alta e felice. E il povero Anticristo sifilitico, quando fu vicino a impazzire, firmò l’ultima sua lettera: il Crocifisso.
Eppure, dopo tanta dilapidazione di tempo e d’ingegno, Cristo non è ancora espulso dalla terra.
La sua memoria è dappertutto. Sui muri delle chiese e delle scuole, sulle cime dei campanili e del monti, nei tabernacoli delle strade, a capo dei letti e sopra le tombe, milioni di croci rammentano la morte del Crocifisso. Raschiate gli affreschi delle chiese, portate via i quadri dagli altari e dalle case e la vita di Cristo riempie i musei e le gallerie. Buttate nel fuoco messali, breviari ed ecologi e ritrovate il suo nome e le sue parole in tutti i libri delle letterature. Perfin le bestemmie sono un involontario ricordo della sua presenza.
Per quanto si faccia, Cristo è una fine e un principio, un abisso di misteri divini in mezzo a due tronconi di storia umana (...).("“Storia di Cristo” ( 1921)- Vallecchi Editore, Firenze).













- Northrop FRYE (14.7.1912, Sherbrooke, Quebec – Toronto 24.1.1991) .

Critico letterario canadese di lingua inglese. Nella sua opera principale “Anatomia della critica” elabora un sistema critico, di ispirazione junghiana, basato sulla ricorrenza di alcuni miti nella letteratura di ogni epoca e nazione. Frye è stato insignito nel 1958 della Lorne Pierce Medal per l’eccezionale contributo da lui apportato alla letteratura canadese. La McMaster University di Hamilton, Ontario, ha incaricato Frye di tenere, per il 1967, il ciclo delle sue conferenze annuali, il cui testo si trova in “Cultura e miti del nostro tempo”.

















“Agghiacciante simmetria. Uno studio su William Blake” di Northrop Frye – Longanesi & C. 1976.

Quest’opera, la prima e forse la più complessa di Northrop Frye, affronta le “profezie” di William Blake partendo dal presupposto che i diversi aspetti della produzione blakiana siano inscindibili l’uno dall’altro e richiedano una trattazione rigorosamente sistematica per metterne in luce l’assoluta unitarietà. Non è dunque un caso che da questo studio su Blake il Frye sia passato a una teoria generale della critica, elaborata nella sua opera più nota “Anatomy of Criticism”, “Agghiacciante simmetria” si articola in tre parti. Nella prima sono esaminate le idee filosofiche di Blake; nella seconda le sue opere principali, in rapporto anche con la tradizione letteraria, vista come mitologia traslata attraverso l’applicazione di moduli di derivazione junghiana (teoria degli archetipi) e di classificazioni per generi di stampo aristotelico, caratteristiche del metodo critico di Frye “utopico pianificatore della città letteraria”. La terza parte del volume, volta all’interpretazione delle profezie blakiane più complesse, “Milton e Jerusalem”, raccoglie i fili del discorso critico fin lì sviluppato sottolineando definitivamente l’integrità della “visione” di William Blake. Questo saggio sul grande visionario romantico inglese segna l’inizio di quel recupero del ‘romance’ in tutte le sue componenti retoriche e mitologiche, cosmologiche e antropocentriche che, al di là delle polemiche sempre attuali, rappresenta il contributo più originale del Frye alla critica anglosassone contemporanea.













“Cultura e miti del nostro tempo” di Northrop Frye (1967. Rizzoli, 1969).

Il formarsi della cultura moderna e gli aspetti che stanno alla base della mitologia dell’uomo d’oggi costituiscono il nucleo centrale di questi saggi, ove il Frye dà prova d’un acume, d’una intelligenza e d’una cultura pari a quella da lui messi così brillantemente in atto nell’ambito della critica e dello studio dei fatti letterari. Nella fitta rete di dati e osservazioni in cui la presente ricerca si articola, Frye pone in particolare l’accento su alcuni temi e problemi di base: l’alienazione derivante dal sempre più rapido avanzare del progresso e che la letteratura contemporanea riflette con particolare evidenza ( Wells, Orwell, Huxley, Jonesco, Beckett e il teatro dell’assurdo); gli effetti negativi della tecnologia sulla struttura della nostra società, effetti che si manifestano soprattutto tramite l’influenza di quelle che l’autore chiama “pseudoarti” (pubblicità, televisione, pubbliche relazioni); l’atteggiamento antisociale della cultura moderna; il ruolo delle arti nella formazione del pensiero contemporaneo e infine il modo in cui esse vengono “integrate” nella società. Per quanto riguarda i fenomeni artistici, Frye fa rilevare che, se il processo stesso del creare è diventato, oggi, l’argomento centrale dell’arte e della letteratura, queste ultime provocano, all’incontro, una sempre crescente reazione attiva da parte del lettore. Lo scrittore moderno “passa la palla”, per così dire, al lettore e la sua funzione si manifesta nel fatto che questi riesca o meno a prenderla. Frye sottolinea inoltre l’importanza dell’educazione nella società moderna, prospettando, attraverso una ampia rassegna storica dei concetti fondamentali che hanno retto i vari sistemi filosofici e mitologici, le possibilità e gli sviluppi futuri dell’attività creativa dell’uomo e di un suo più autentico rapporto con la realtà.

“Anatomia della critica” di Northrop Fryen - Einaudi, 1969.

Il più noto e discusso libro di Northrop Frye è tra le opere di fondo del moderno metodo critico.
Preminente è in Frye l’interesse per il simbolo come motivo letterario e come segno critico. Questo “utopico pianificatore della città letteraria”, come è stato definito, tenta uno scandaglio inedito attraverso un minuzioso sforzo di classificazione per generi, che giunge a rivelare i congegni della convenzione retorica e a illuminare una tradizione letteraria.

Tra le sue opere: - Frye è stato autore di numerosissimi libri, saggi ed articoli, tra cui ricordiamo: “Fearful Symmetry: a study of William Blake” (1947) (In Italia, “Agghiacciante simmetria. Uno studio su William Blake”, Longanesi, 1976), “Anatomy of Criticism. Four Essays” (1957) (In Italia, “ Anatomia della critica”, Einaudi, 1969), “The Well-Tempered Critic (1963), “Thomas Stearns Eliot” (1963), “Fables of Identity: Studies in Poetic Mythology” (1963), “A Natural Perspective: the Development of Shakespearean Comedy and Romance (1965), “The Return of Eden: Five Essay on Milton’s Epics “ (1965), “The Fools of Time” (1967), “The Educated Immagination” “ The Modern Century” (1967) (In Italia, “Cultura e miti del nostro tempo”, edito da Rizzoli, nel 1969), “ A Study of English Romanticism” (1968), “The Stubborn Structure” (“L’ostinata struttura”) (1970), “The Critical Path” (1971), “The Bush Garden” (1971), “Il Grande Codice: la Bibbia e la letteratura” (1982), “Riflessioni su Shakespeare” (1986).










- Thomas Stearns ELIOT ( Saint Louis, 26.9.1888- Londra, 4.1.1965).

Poeta, drammaturgo e critico statunitense, naturalizzato britannico. Formatosi all’università di Harvard, soggiornò a Parigi, Marburg e Oxford; nel 1914 si stabilì a Londra e strinse un importante legame di amicizia con Ezra Pound; fu direttore della rivista “Criterion” e svolse attività editoriale; divenne cittadino britannico nel 1927, anno in cui si convertì all’anglicanesimo. Premio Nobel 1948.

“Nessun poeta, nessun artista di qualsiasi genere, ha senso compiuto per se stesso. Attribuirgli un senso, saperlo valutare, significa saper valutare la sua relazione con i poeti e gli artisti passati. Non è possibile apprezzarlo isolandolo: occorre, per metterlo a confronto e in contrapposizione, situarlo tra i morti. E questo considero un principio di critica estetica, non semplicemente di critica storica”.

“Quando una nuova opera d’arte è compiuta, ciò che accade riguarda simultaneamente tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta. I monumenti esistenti formano tra loro un ordine ideale, che viene modificato dall’inserimento di un’opera nuova (veramente nuova). L’ordine esistente è completo prima che appaia la nuova opera; affinché l’ordine si conservi dopo il nuovo contributo, occorre che l’ordine esistente, nel suo complesso, venga, sia pure insensibilmente, alterato; così le relazioni, le proporzioni, i valori di ogni opera riferiti all’insieme, sono ridimensionati; e in questo l’antico e il nuovo sono conformi tra loro. Chiunque abbia fatto sua questa idea dell’ordine, della forma, nella letteratura europea, ad esempio inglese, non troverà strano che il passato sia trasformato dal presente, nell’atto stesso che il presente è orientato dal passato. E il poeta che ha coscienza di ciò, avrà il sentimento di grandi responsabilità e difficoltà”.

“In tutti i tempi, tra gli artisti, c’è una comunità invisibile. Avere sempre presenti i grandi modelli del passato; produrre al loro livello e secondo i loro insegnamenti; ereditare da loro proporzioni e regole; è un compito non meno necessario all’artigiano delle lettere di quanto lo sia per l’architetto o per il musicista”.

















“Uno dei meriti di un poeta autentico è quello di poter rintracciare, leggendoli, i suoi precursori più lontani; e, analogamente, la lettura di questi autori, ci riconduce a lui”.

“Corriamo il rischio di confondere ciò che è vitale e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è sentimentale. L’altro rischio è di associare la tradizione con ciò che è immutabile; di concepirla come qualche cosa di incompatibile con ogni cambiamento; di desiderare il ritorno ad una condizione anteriore che ci illudiamo di poter conservare per sempre, invece di sforzarci a stimolare la vita che ha prodotto, a suo tempo, questa condizione”.

“Siamo contenti quando il poeta differisce dai suoi immediati predecessori; ci sforziamo di trovare in lui qualche cosa che si possa isolare per poterne gioire; invece, se affrontassimo il poeta senza questo pregiudizio, scopriremmo che, non soltanto il meglio della sua opera, ma spesso anche le parti più personali, sono proprio quelle in cui i poeti morti, i suoi avi, affermano in modo più vigoroso la loro immortalità”.

“Ciò richiede in primo luogo senso storico, qualità che consideriamo indispensabile a colui che desidera rimanere poeta oltre i suoi venticinque anni; e il senso storico implica la percezione non soltanto dello scorrere del passato, ma della sua presenza; il senso storico obbliga un uomo a scrivere non soltanto avvertendo ciò che porta in sé, nel midollo delle sue ossa: la propria generazione; ma sentendo che tutta la letteratura europea, dopo Omero – e in essa la letteratura del proprio paese – possiede un’esistenza simultanea e costituisce un ordine di correlazione simultanea”.














Ancora Thomas Stearns ELIOT:

“La poesia è impersonale in questo senso: che una emozione e una esperienza personale si prolungano e si completano in qualche cosa di impersonale, senza che ciò implichi in alcun modo una separazione dall’esperienza personale o dalla passione”. (Non sono i nostri sentimenti ad avere un valore unico: è la materia di cui essi sono fatti. Il poeta ha il compito di trasmutare le sue angosce, i suoi tormenti più intimi, in qualcosa di ricco e di strano, di impersonale e di generale).

“La qualità migliore del poeta è l’atto appassionato col quale egli accetta di annullarsi, di identificarsi in un sistema con un’adesione totale, e in questo trovare qualcosa di più di un “io” ingrandito. Un simile abbandono richiede una grande concentrazione”.














Tomas Stearns ELIOT:

“Retorica e prosodia non sono affatto costrizioni inventate arbitrariamente, ma un insieme di regole poste dalla forza organizzatrice dello spirito. E non è mai accaduto che prosodia e retorica abbiano impedito all’originalità di esprimersi con chiarezza. Il poeta ha il dovere di crearsi un proprio ritmo”.

“Infatti, il cattivo poeta è di solito incosciente là dove dovrebbe essere cosciente, e cosciente là dove dovrebbe essere incosciente. I due errori concorrono a renderlo personale. La poesia non consiste nello scatenare l’emozione ma nel fuggirla; non consiste nell’esprimere una personalità ma nel liberarsene. E’ ovvio che soltanto coloro che possiedono una personalità e delle emozioni comprendono che cosa significhi volersi liberare da queste cose”.

“Lo spirito del poeta è il pezzetto di platino. Può accadere che egli operi parzialmente o esclusivamente sulla propria esperienza di uomo; ma, più l’artista è perfetto, più rimarranno in lui distinto l’uomo e l’artista e più compiutamente lo spirito dirigerà e trasformerà le passioni che sono la sua materia prima”.















Per Eliot, il solo modo di esprimere l’emozione in forma artistica è quello di “trovare un correlativo oggettivo, in altri termini, un insieme di oggetti, una situazione, una catena di avvenimenti, che costituiranno la formula di questa emozione particolare, in modo che, dati i fatti esteriori che devono tradursi in una esperienza sensoriale, l’emozione sia immediatamente evocata”.

“Il poeta , come il critico, porta il suo contributo allo sviluppok della cultura; da parte sua sarebbe assurdo ignorare il lavoro dei suoi predecessori o di coloro che scrivono in altre lingue, come lo sarebbe per un biologo rifare le esperienze di Mendel. I poeti francesi in questione hanno fatto scoperte che non siamo più in diritto di ignorare”.

“da una parte il critico può essere così interessato dai dati impliciti di uan poesia o di un’opera poetica – dati morali, sociali, religiosi o altri – che la poesia non rimane altro che pretesto per un commento. Tale è la tendenza dei critici moralisti del XIX secolo, tra i quali Landor costituisce una notevole eccezione. Ma se aderite troppo strettamente alla “poesia” e non vi curate di sapere ciò che vuol dire il poeta, allora rischiate di vuotare questa poesia di ogni significato”.

“La nostra civiltà comprende cose assai diverse e assai complesse…Il poeta deve abbracciare una quantità di cose sempre maggiore, suggerirle per allusione, e indirettamente, in modo da costringere a dislocare il linguaggio, per estrarne ed esprimerne tutto il significato”.














Tomas Stearns ELIOT:

“I critici si meravigliano degli scarti bruschi e delle connessioni che si incontrano nelal poesia moderna. Per decidere se lo scarto è coerente, occorre giudicare se lo spirito unitario e la personalità, tutta intera, è presente”.

“E’ l’unità della personalità che dà coerenza unitaria ai vari argomenti di cui parla lo scrittore. Poiché l’unità dell’opera dipende dall’unità dello spirito dell’autore”.

“Per quanto strano possa sembrare, la mia familiarità con la sua poesia (si riferisce al poeta francese Valéry) è dovuta in gran parte allo studio che ho fatto su ciò che egli scrive sulla poesia. Di tutti i poeti, Valéry è stato quello più completamente lucido (bisognerebbe dire forse: il più vicino alla lucidità) nei confronti del suo lavoro”.

“Mi sono accorto più volte che le sue analisi ( di Valéry) del processo poetico corrispondevano alla mia analisi personale su questioni di cui non avevo avuto che una conoscenza oscura”.

“La critica letteraria dovrebbe essere completata da una critica condotta in nome di un’etica e di una teologia determinate…La grandezza di un’opera non potrebbe essere stabilita soltanto in base a criteri letterari, in quanto i criteri letterari servono unicamente a determinare se si tratta o no di letteratura”.

“Un poeta che fosse anche un metafisico sarebbe così difficile da concepire come un liocorno… Un simile poeta sarebbe un mostro – come, per me, è un mostro “Monsieur Teste” di Valéry. E’ più semplice, se occorre, adottare la filosofia di un altro che caricarsi il fardello di un sistema filosofico di un mostruoso sosia che portiamo in noi stessi. Dante e Lucrezio hanno molto schiettamente adottato una filosofia altrui…La qualità più sorprendente di Lucrezio è lo slancio appassionato che lo porta ad identificarsi con un sistema, trovando in esso qualcosa più grande di lui”.

In un tempo abbastanza recente, Eliot ha puntualizzato questa questione a lungo dibattuta. Egli è propenso a distinguere due significati differenti dell’espressione : “filosofia di un poeta”; da una parte c’è una “filosofia” che egli ha derivato o che cerca di costruire lui stesso con il linguaggio della filosofia; dall’altra c’è una filosofia che può esprimersi soltanto nel linguaggio della poesia, ed è quest’ultima che, nel senso più vero, è l’opera originale del poeta.

“Quando, per capire meglio Dante, studiamo la metafisica di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, arricchiamo le nostre conoscenze sull’origine dei materiali che servirono a costruire il poema; ma la filosofia di Dante, in quanto poeta, è differente dalla sua filosofia in quanto discepolo dei filosofi. Per esempio: se, meditando su certi passi tra i più filosofici del Purgatorio, li traduciamo nei termini del “De Anima” di Aristotele, siamo stupiti che il poeta abbia potuto trasformare in poesia una sostanza così austera e refrattaria. Ma il fatto che questa sostanza sia stata trasformata in poesia significa che non siamo più nella stessa dimensione di pensiero propria dei maestri di filosofia di Dante”.

“Dobbiamo considerare la poesia come un veicolo espressivo delle nostre idee, delle nostre credenze, delle nostre emozioni, delle nostre osservazioni e della nostra esperienza, o dobbiamo considerare queste idee, credenze, emozioni, osservazioni, questa esperienza, semplicemente come materia di cui è fatto un poema?”.

E risponde distinguendo anzitutto il problema del lettore (che può ingannarsi nelal sua interpretazione ) e quello del poeta, che può progettare una cosa e realizzarne un’altra. Il poeta può fare una buona poesia ora con un minimo di mezzi propriamente poetici, ora con un contenuto insignificante; Eliot porta come esempi, da una parte, i versi di San Giovanni della Croce, dall’altra, le canzoni di Shakespeare. Egli si pone nella prima categoria: quella dei poeti che avrebbero potuto essere filosofi ( e sappiamo che questa fu la prima vocazione di Eliot). E’ ovvio che il valore di una poesia rimane distinto dall’importanza delle idee sulle quali si fonda. Del resto, sotto una struttura filosofica il poeta può mettere molto di se stesso,

“fino al punto in cui la più alta espressione del proprio essere in una poesia finisce per coincidere con il massimo dell’impersonalità”.

Egli rimane poeta perché,

“se si traduce il contenuto delle sue poesie in termini astratti, lo si cambia in qualcosa d’altro, in qualcosa di minor valore…Il fatto che questa sostanza sia stata trasformata in poesia significa che non siamo più nella stessa dimensione di pensiero…”.

Del resto Eliot confessa compiaciuto che le sue idee, una volta disposte nel loro ordine definitivo, lo sorprendono come quelle di un altro. E l’opera compiuta raramente è quella che l’autore aveva in mente mettendosi al lavoro; essa è un lungo tirocinio in cui ogni tentativo è un nuovo punto di partenza, in cui “ogni avventura è un nuovo inizio: un viaggio (come egli stesso ha suggerito riguardo al poeta Donne, a Poe e a Mallarmé) Eliot si serve delle teorie metafisiche per uno scopo ben determinato: affinare e sviluppare la sua sensibilità e il suo sentimento. La sua opera è una estensione della sua sensibilità al di là dei limiti del mondo normale.
Dopo la sua lunga marcia nel cuore del deserto, Eliot, giunto in un luogo sicuro, difende la sua conquista: egli fa sua la professione di fede di Maurras: “La sensibilità, preservata da se stessa, e disciplinata, è diventata un principio di perfezione”. Veramente non è stato senza penosi tentennamenti che il poeta ha liberamente adottato dottrine così rigorose. Scrisse Eliot durante una controversia con Middleton Murry.

“Gli uomini non possono vivere senza sottomettersi ad un valore che li trascenda”.

E poiché Middleton Murry era orientato a sostenere che essi dovessero ubbidire alla loro voce interiore, Eliot ebbe modo di ribattere:

“La “voce interiore” si avvicina molto alla massima “fa ciò che ti pare…”. Vanità, timore e concupiscenza: ecco i suggerimenti di questa voce!”.

“Non sono affatto un seguace di Maurras anche se mi trovo d’accordo con lui su certe questioni, fuori del campo politico. E se certi rapporti mi legano a Maritain, ritengo tuttavia di non dover essere considerato un suo seguace […] Il problema, direi, si pone in modo differente in Inghilterra e in Francia. Per me la tradizione è assai più di un attaccamento testardo al passato, e in Inghilterra si può essere tradizionalisti senza la sfumatura politica che voi attribuite – in senso spregiativo – a questa parola. Del resto, non tutto del passato merita di essere conservato, e ciò che si prolunga deve essere vivificato. Sono un conservatore difficile. Anzi, credo sua rivoluzionaria la mia concezione della tradizione sempre rinnovata e sempre dialettica”.

“In Baudelaire il fatto importante consiste in questo: che egli, prima di tutto, è un cristiano, nato fuori della sua epoca…Ora, per il tipo di cristiano che egli era, e per l’epoca in cui viveva, gli fu necessario scoprire per proprio conto il cristianesimo. In questa ricerca egli si è trovato solo, di quella solitudine che conoscono i santi. Spontaneamente la nozione di peccato originale e la necessità della preghiera si sono imposte alla sua meditazione . […] E Baudelaire è giunto alla più grande, alla più difficile delle virtù cristiane: quella dell’umiltà”.

Si può dire che l’intento di Eliot, come quello di Dante, è “strappare coloro che vivono in questa vita dal loro stato di miseria per condurli allo stato di felicità”. E la sua poesia rimane, se non uno strumento di salvezza, almeno “una creazione autonoma in cui si riflettono gli abbandoni di una umanità peccatrice alla ricerca dela beatitudine”. E’ da Dante, certamente, che Eliot ha imparato l’arte di non lasciare mai il lettore sotto il peso delle sue dottrine. Grazie a ciò che Maritain chiama “l’innocenza creatrice del poeta”, l’uno e l’altro (l’uomo del Medioevo, Dante, e il nostro contemporaneo Eliot) giungono a rivestire le speculazioni astratte con le loro viventi allegorie, innalzandole e trasfigurandole nell’emozione poetica. L’allegoria diventa allora “melodia visiva” e ci procura un diletto intuitivo, poiché ci basta sapere che essa implica un significato, anche se non giungiamo a penetrarlo completamente. “Leggendo la poesia, rimaniamo sospesi tra il credere e non-credere”.
Eliot nota che la fede personale di Dante diventa altro, diventando poesia. Si potrebbe dire che ciò vale per Dante più che per ogni altro poeta-filosofo.

“La virtù persuasiva appartiene al primato innato e sovrano del senso poetico sul senso concettuale. Il me dell’uomo scopare nell’io creatore del poeta. La stessa fede teologale, la credenza più sacra, entra a far parte dell’opera attraverso l’emozione creatrice e la conoscenza poetica”.

CULTURA E CRISTIANESIMO per T.S. Eliot

Seguendo l’esempio di Baudelaire, Eliot è diventato consapevole del fatto che ogni poesia veramente grande deve avere un fondamento morale; in altri termini, essa non può ignorare il problema essenziale, cioè il problema del bene e del male o del peccato originale.
“L’uomo è uomo perché sa riconoscere, non perché sa inventare le realtà soprannaturali”.

“Se è vero che il nostro compito è di costruire il futuro, non possiamo tuttavia compierlo che usando i materiali del passato; dobbiamo servirci della nostra eredità, anziché rinnegarla. Le consuetudini religiose della specie sono assai forti, in tutti i luoghi, in tutti i tempi, e rimangono diffuse per il mondo intero. Non c’è invece un habitus umanista: l’umanesimo, credo, è semplicemente la condizione di spirito di alcune persone, in qualche luogo e in qualche epoca”.

In un tempo di eresia e di indisciplina intellettuale, l’unità religiosa è il grande fattore di stabilità morale.

“Quando la morale non è più questione di tradizione e di ortodossia – cioè di abiti della comunità, corretti e sublimati dal pensiero e dalla direzione continua della Chiesa – quando ognuno è libero di elaborare la propria morale, allora la personalità diventa un valore di importanza inquietante”.

Certo, Eliot riconosce che “per il poeta, la morale è una questione preliminare”. Tuttavia, la “preoccupazione morale” gli sembra essenziale in ogni opera d’arte di portata universale. E ciò lo rende particolarmente severo verso D.H. Lawrence, ad esempio, e verso Andé Gide, che “travolgono tutti i freni”, subiscono tutte le inclinazioni naturali e cercano di ridurre i risultati delle civiltà alla forza di impulsi primitivi. Abbiamo bisogno di una fede e la letteratura non può surrogare la religione; poiché, come dice Maritain, “è un errore mortale attendere dalla poesia il nutrimento sostanziale per l’uomo”. Scrive Eliot:

“Io ritengo che la concezione religiosa dei valori ultimi sia la vera, e che la concezione umanistica sia erronea. Per loro natura, queste categorie non sono necessarie come quelle di spazio e di tempo, ma esse sono ugualmente obiettive. Parlando di religione, è a questo livello che desidero pormi. Non ho affatto quei sentimenti di nostalgia e di riverenza per la tradizione, quel desiderio di attingere nuovamente la sentimentalità di frate Angelico, che sembrano animare la maggior parte dei moderni difensori della religione. Tutto ciò mi sembra inconsistente. Ciò che importa, ciò di cui nessuno sembra rendersi conto, sono i dogmi,
come quello del peccato originale, la più precisa espressione delle categorie proprie dell’atteggiamento religioso. Affermare che l’uomo non è in alcun modo perfetto, ma è una creatura miserabile capace tuttavia di raggiungere la perfezione”.

“La nostra società ha una cultura negativa, ma in ciò che essa ha di positivo rimane cristiana. Non credo che possa rimanere negativa, perché una cultura negativa ha perduto ogni efficacia in un mondo in cui le forze economiche, come le forze spirituali, sono impegnate a dimostrare l’efficacia delle culture pagane, che sono pur positive”.
Il rifiuto delle culture pagane implica l’elaborazione di una nuova cultura cristiana. Nel parlare di società “cristiana”, ciò che interessa Eliot non è, in primo luogo, la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa, e neppure quella del valore religioso dei singoli individui di queste società; egli vorrebbe piuttosto che lo spirito evangelico entrasse nelle istituzioni in cui agiscono cristiani e non cristiani. E benché il tempo presente gli ispiri tristi considerazioni, la sua speranza non rimane meno viva. Scrive:

“Il mondo sta elaborando una mentalità non cristiana. Questo tentativo fallirà, ma noi dobbiamo dar prova di molta pazienza mentre attendiamo questo scacco, e dobbiamo intanto riscattare il tempo; perché la fede possa conservarsi viva durante le oscure età a venire; perché la civiltà possa essere rinnovata e ricostruita; perché si possa salvare il mondo dal suicidio”.


TSOU Peter

L’ingegnere Peter Tsou, 66anni, scienziato della NASA (National Aeronautics and Space Administration – Ente statunitense fondato nel 1958 per la promozione e l’amministrazione delle ricerche aerospaziali), soprannominato “il professor Sturdust”, ha inventato una sostanza gelatinosa molto leggera e trasparente che, in forma di zollette di zucchero, è stata inviata nello spazio con la sonda Sturdust, partita nel 1999, per catturare le particelle della Cometa Wild 2. Nel 2004, dalla navicella americana, l’aerogel è stato “sparato” nelle vicinanze della cometa passante Wild 2. La sostanza gelatinosa ha imprigionato al suo interno granuli carboniosi di quella cometa che viaggiava a 20mila km/h.
Il 15 gennaio 2006 la sonda è rientrata sulla Terra, portando allo scienziato l’eccezionale reperto di polvere spaziale con cui, ora, è possibile studiare ancora meglio il nostro passato.
L’origine della vita sul nostro pianeta, iniziata circa 4-4,5 miliardi di anni fa, come già è ipotizzato dalla scienza, è avvenuta ad opera di particelle primordiali di una cometa; e quindi l’analisi della polvere della Wild 2 potrebbe rivelarci lontanissime “parentele” da cui hanno avuto origine uomini, animali e piante.
Quando l’astronauta Neil Armstrong poggiò il primo piede sulla Luna, il 21 luglio 1969, con la missione Apollo 11, disse :” Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità…”.













ARCHITETTURA: la bellezza nell’ingegno costruttivo e nella forma edificata.

Le opere architettoniche sono i simboli della edificazione strutturata e di armonia con l’ambiente. Questi simboli hanno un linguaggio che comunica bellezza nella realizzazione progettuale creativa: verticalità, prospettiva, spazio protettivo e di raccoglimento intimo e collettivo, luminosità spaziale interna ed esternata (vuoti e pieni, pareti in materiali trasparenti e riflettenti di facciata per l’architettura contemporanea), ritmo nel movimento configurativo, uso dei materiali naturali e della nuova tecnologia.
Oltre ai ritmi e alle proporzioni, alle forme ed agli spazi, a completare l’opera architettonica partecipa anche il colore. Esso può essere rappresentato dall’impiego di materiali diversi come dalla loro diversa lavorazione, dalla decorazione pittorica come dal giuoco delle ombre, dai graffiti o dal tono di una superficie rispetto all’ambiente.


COSTRUTTORI DI BELLEZZA


FUKSAS Massimiliano (Roma, 1944 – viv.) “La coscienza critica della città e della contemporaneità”. “La bellezza e la luce”.

Architetto e urbanista. Allievo di L. Quadroni, titolare di studi a Roma, Parigi e Vienna, svolge anche attività di critico. Nel 1998-2001 ha diretto la sezione di architettura della Biennale di Venezia.
A proposito della vita nella città di Roma, ha dichiarato:
“Seppur ricca di allettanti siti archeologici, opere e monumenti a non finire, Roma si perde in questa sua cattiva gestione della cittadinanza, della sua presenza, dei suoi bisogni e dei suoi pericoli. Bisognerebbe sconfiggere la maleducazione della gente. Liberare le strade dalle auto. Bisogna spostarsi tutti a piedi o sui mezzi pubblici. Basta con i parcheggi selvagge col caos di otto o novecento motorini, che creano una situazione di grande pericolo” (…) “Io credo che il centro storico di Roma o aree abbastanza consolidate che si trovano tra la periferia e la città, siano molto pericolose a causa del parcheggio selvaggio. In caso di emergenza, infatti, motorini e macchine renderebbero difficile far uscire o far entrare i mezzi di soccorso e non solo” (…) “ All’estero è normale che le strade siano pulite ed il verde curato. A Roma, invece, del malcostume se ne deve occupare il sindaco o l’assessore, ogni problema richiede interventi straordinari”.(…)
(…). “Per ciò che riguarda questa nostra era della globalizzazione, delle automazioni elettroniche e della telecomunicazione, Fuksas dice: “ io credo che la tecnologia non faccia perdere nessuna memoria. La tecnologia è uno strumento. Anche la forchetta e il coltello sono tecnologie. Dobbiamo pensare che tutto quello che arriva e arriverà nei prossimi anni è parte del nostro mondo. La memoria della città non si può perdere, anzi si può acquisire. Il problema è il rapporto tra virtuale e reale, che devono essere fortemente legati, perché l’individuo ha un’idea e un concetto e poi sperimenta quello che pensa. Anche quando camminiamo, quando mettiamo un piede dopo l’altro, si tratta di una sperimentazione di quello che pensiamo. C’è sempre una parte di virtuale, di idea, di concetto e una parte di realtà. Perciò, credo che la città sia parte integrante di questo nuovo processo. Tecnologia virtuale e reale fanno parte dello stesso mondo”.(…)
“Il computer ha determinato la capacità di comprendere cose che prima non riuscivamo ad analizzare, a vedere. Possiamo entrare nella materia, nello spazio interno, cosa che avevamo grande difficoltà a fare prima. Da un aparte c’è il modello reale, dall’altra il modello virtuale: in poche parole, da una parte abbiamo il plastico, fatto di materia, di legno, di materiale traslucido; dall’altra il mondo del virtuale, che è il computer. Si può correggere l’immagine virtuale del computer con il modello. Reale e virtuale fanno parte di un nuovo modo di vedere la realtà. Certo non avrei mai potuto fare progetti come quelli che faccio adesso vent’anni fa. Anche se li avevo già intuiti, era facile incorrere in errori, perché non riuscivamo a controllare forme che non sono forme, ma sono informi”.(…)
“Non c’è bisogno di integrare la comunicazione con l’architettura: l’architettura è comunicazione, se non comunica, non serve assolutamente a niente. L’architettura è comunicazione, se non comunica, non serve assolutamente a niente. L’architettura nasce per una voglia fortissima di dare emozioni, di dare immagini, di dare anche una magia. La comunicazione fa parte dell’architettura. In realtà, la paura di molti di un’architettura che è solo immagini è riferita a un’architettura formalista o vuota. Un cubo neorealista tristissimo può essere altrettanto stupido e brutto di una forma estremamente dilatata o priva di geometrie classiche o semplici. Il problema è nelle idee e nella magia che esse comunicano. L’architettura se non riesce a comunicare e non riesce a dare quella magia che ci manca, non ha senso”.(…)
“Non credo assolutamente che la gente diventi sempre più sedentaria, anzi credo che acquisti in mobilità. Uno può stare fermo, muovendosi. Per esempio, con il cellulare, l’auto è diventata un ufficio. Il vero problema delle nostre città è la capacità di interconnessione e di comunicazione. Il problema non è che Internet o la televisione tengono la gente inchiodata. Questa è la paura del diavolo: il diavolo come tecnologia. La tecnologia, e soprattutto Internet, ti mette in comunicazione con una gran parte del mondo: il problema è in che modo noi riusciamo a utilizzare quello che impariamo. Siamo ancora in una fase critica: usiamo Internet in un modo sballato, pressappochista, quasi come una chat line, un luogo di chicchere e di pettegolezzi. Il ruolo di Internet è ancora tutto da scoprire.(…)
“La tecnologia in architettura non serve assolutamente per fabbricare lo spazio. Lo spazio si fabbrica con la testa: prima di fare un progetto, lo si deve immaginare. Le idee sono nella testa e da qui devono uscire fuori. Il passaggio non avviene attraverso la tecnologia ma tramite la traduzione di quello che si immagina in qualcosa che sarà reale.(…)
“Le tecnologie non sono né democratiche, né totalitarie. Dipende dall’uso che se ne fa. Internet, ad esempio, si può usare per dominare gli altri o per aiutarli: la Biennale di Venezia del 2000 da me curata comunicava proprio il fatto che noi possiamo usare le nuove tecnologie per migliorare le condizioni degli altri”.(…)
A proposito della multietnicità e del plurilinguismo, della contaminazione di stili architettonici:
“Se la gente si sposta, nasce il métissage: una popolazione che perde le sue origini, ma diventa parte di un’altra realtà. Non si può pensare un’architettura che non abbia una forma di métissage. Non credo a un’architetura internazionale, non credo che un prodotto, un progetto pensato in un solo paese possa esportarsi in tutto il mondo. Già dal tempo dei Greci e dei Romani, quando si costruiva nell’allora Medio Oriente, l’architettura romana subiva dei cambiamenti sostanziali: Alessandria non era assolutamente confrontabile a Roma”. (…)
“Non cambia la fisionomia della città. Cambia il concetto di città. Per città noi intendiamo qualcosa di estremamente piccolo, che ha un dentro e un fuori. Roma, all’interno delle Mura aureliane, conta oggi 127mila abitanti. I romani però sono 4 milioni. Dove vivono gli altri? Nelle periferie. E qual è la città? Secondo me è l’altra. Io abolirei anche la parola periferia, perché non esiste più. La città è cambiata anche perché adesso in un luogo dove prima vivevano pochissime persone, ne vivono tantissime: l’area di Città del Messico conta 22 milioni, l’area di Calcutta 44 milioni, l’area di Tokio 56 milioni. Questa dimensione cambia il concetto di città: si tratta di megalopoli. E’ con questi luoghi di grandi densità che dobbiamo confrontarci”. (…)
“Sono passati vent’anni dalle prime mediateche costruite; esse appartengono tipicamente agli anni Ottanta. Io ne ho costruite almeno tre o quattro in Francia. All’epoca era un progetto innovativo, in quanto si mettevano insieme video, tecnologia, computer, informatica, e poi libri. la mediateca era un luogo completamente democratico, una realtà legata all’urbanità e al cittadino. I nuovi luoghi della cultura non saranno più le mediateche ma i luoghi marginali, che ancora non sono stati colonizzati. La città di New York, come tutte le città che hanno un passato produttivo, riesce a trasformare grandi aree produttive volta per volta in aree prima di arte, di cultura e poi di speculazione. L’arte e la cultura della città possono colonizzare aree che sono abbandonate. L’errore è stato, nel caso per esempio della Bicocca di Milano, di non colonizzare attraverso l’arte, ma di fare un piano urbanistico. I piani urbanistici sono sempre poveri, tristi posti in cui nessuno vuole andare a vivere e tutti si sentono marginali, di una marginalità terribile che è la non identificazione con se stessi”. (…)
“Alla Biennale di Venezia del 2000 abbiamo fatto un muro di immagini di 300 metri: è chiaro che una cosa del genere prima non l’avremmo mai potuta fare. Si deve guardare a questo, al lavoro dei videoartisti, alla fotografia. I migliori artisti oggi sono quelli che usano la fotografia, Vincent Gallo ad esempio. L’immagine ha una forza, una potenza espressiva che quasi non troviamo più nel mondo della pittura”. (…)
“Quando si progetta un edificio, si pensa prima di tutto a chi ci dovrà andare ad abitare. L’architetto e l’artista vogliono entrare in contatto con l’utilizzatore finale. La tecnologia non è neanche un plus valore, è un mezzo per arrivare a questo. Ritorniamo all’origine della questione, che nasce all’inizio del Novecento, quando si pensava che la rivoluzione tecnologica potesse anche portare a dare a tutti degli oggetti d’uso che migliorassero la qualità della vita e anche dell’estetica”. (…)
“L’architettura attualmente è ancora vecchia. Noi usiamo materiali vecchi e un procedimento antichissimo. Possiamo accelerare i tempi rispetto al passato – benché il Colosseo sia stato costruito in cinque anni – ma in realtà usiamo sempre gli stessi materiali: pietra, acciaio, mattoni, vetri. Tutta la ricerca spaziale non ha avuto ancora una ricaduta reale. Per costruire la “Nuvola”, del Centro Congressi all’EUR di Roma, ho usato il Goretex, un materiale traslucido, tessile, che deriva dalla ricerca spaziale, ma il mondo della tecnologia non ha toccato completamente quello dell’architettura. L’unica cosa che abbiamo veramente guadagnato è la precisione dei disegni”. (…)
Ed a proposito della luce:
“La cosa che possiamo avere sicuramente è la luce. Tutta l’architettura che ho fatto negli ultimi vent’anni è completamente compresa nel concetto di luce. L’idea è quella di un edificio che restituisca durante la notte la luce presa di giorno, tirandola fuori da se stessa. Abbiamo fatto una grande ricerca sulla qualità e la tecnica della luce: adesso ci sono dei programmi che ci permettono di comprendere e prevedere tutti i cambiamenti di luce”. (…)

“Per la realizzazione dell’”Agenzia Spaziale Italiana”, a Roma, saranno utilizzate tutte le nuove tecnologie. La facciata non è più una facciata: essa diventa uno schermo, cioè un luogo d’informazione. Non è più decorazione ma diventa immagine. E’ una facciata che può cambiare colore o densità, può essere trasparente, traslucida o opaca, sulla quale si può proiettare. In tal modo, la gente che passa può vedere il lancio a Cape Canaveral di un satellite oppure quello che succede all’interno, nell’area del museo. E’ un uso che dà maggiori informazioni: la tecnologia è dare maggiori informazioni.
Il “Palazzo dei Congressi” è un’altra cosa: c’è una pellicola incredibile che chiude un grande involucro, nel quale dall’interno si vede arrivare la luce, dall’esterno si vede di notte una grande massa luminosa sospesa solo su tre punti dentro un volume traslucido nel quale si percepiscono le ombre e si vede una grande massa. L’uso della tecnologia ci permette svariate cose: prima di tutto un maggiore controllo di tutto il processo progettuale e costruttivo. Ma questo non vuol dire assolutamente che perdiamo fantasia. C’è una questione di fondo sotto tutti gli interrogativi riguardanti la tecnologia: l’uomo cambierà? Continuerà a sentire nonostante la tecnologia? Non sarà ucciso, mangiato, fatto a pezzi da Internet, dai visori, dai sensori, dai video, dagli apparecchi, dai gadget? Progetteremo case solo per farci vivere in questa specie di grande blob di immagini? Non credo. Finché un uomo dopo qualsiasi catastrofe scriverà tre versi e qualcuno piangerà sarà sempre lo stesso. La commozione farà parte della nostra vita”.

Opere di Fuksas: Europark SPAR, Salisburgo, 1994; Maison des Arts, università Michel de Montagne, Bordeaux, 1993-95; Liceo Maximilien Perret, Alfortville, 1995; Twin Towers, Vienna, 1995-2001; Facoltà di legge ed economia, Limoges, 1996; Centro della pace, Giaffa, 1998; Centro Congressi all’EUR, Roma, 1999; Agenzia spaziale italiana, Roma, 2000-2003; Centro per esposizioni e congressi, Angouleme, 2001-2003;Palazzo della Regione Piemonte, Torino, 2001-
Discutere: "L'immagine e la creatività, la funzione fantastica, la new media art. La realtà in immagini, l'emozione per l'immagine è reale o falsa? Se la realtà può essere falsata nella rappresentazione per immagini, le nostre emozioni possono essere falsate? Siamo noi lo strumento-veicolo di una falsa realtà, di un non-reale, di false emozioni provate?"

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