mercoledì, settembre 27, 2006

PAREYSON Luigi: "Costruttore di bellezza"

- Luigi PAREYSON (Piasco 4.2.1918 – Milano 8.9.1991)











Filosofo italiano. Partendo dall’esistenzialismo, che fu uno dei primi a diffondere in Italia, e dall’approfondimento dell’idealismo tedesco, elaborò un “personalismo ontologico”, secondo cui la verità è inoggettivabile, prendendo forma solo nell’ambito di una ricerca personale che è in pari tempo rivelativa e storica. In estetica ha opposto un criterio di formatività a quello dell’intuizione crociana. Ha diretto la “Rivista di estetica”.
Dopo aver insegnato all’Università di Pavia (1951) è divenuto ordinario di estetica a Torino (1955). Ha cercato di portare i temi della filosofia dell’esistenza nell’ambito della problematica dello spiritualismo cristiano. Particolarmente importanti sono le sue ricerche di estetica, sul piano storico e su quello teoretico.

Opere principali:
- Studi sull’esistenzialismo (1943)
- Esistenza e persona (1950)
- Estetica, teoria della formatività (1954)
- Teoria dell’arte (1965)
- I problemi dell’estetica (1966)
- L’estetica di Kant (1968)
- Verità e pensiero tecnico (1968)

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ORTEGA Y GASSET José: "Costruttore di bellezza"

ORTEGA Y GASSET José (Madrid, 1883-1955)










Filosofo e saggista spagnolo. Dopo aver compiuto i suoi studi in Spagna, si recò in Germania dove fu allievo del filosofo neokantiano Hermann Cohen. Dal 1910 al 1936 (quando lasciò la Spagna all’inizio della guerra civile) insegnò metafisica all’università di Madrid e nel 1923 fondò la “Revista de Occidente”, una delle più importanti riviste culturali spagnole della prima metà del Novecento. Visse successivamente in vari paesi europei e negli Stati Uniti, tornando in Spagna nel 1945.
La sua opera, copiosa, definiva un pensiero che si accentrava intorno ad alcuni temi dominanti: il problema della Spagna, la crisi della società moderna, la necessità di una filosofia che superasse le conseguenze del razionalismo. Egli vede la vita umana come “realtà radicale”, intendendola come un rapporto dinamico dell’Io con le cose, che comporta una concezione da Ortega stesso definita “prospettivismo”. Per questa stretta interrelazione, ragione e vita vengono a formare una unità organica, il cui principio fondamentale è la “ragione vitale” (“raziovitalismo”); con essa, Ortega reagisce contro il relativismo e contro il razionalismo, impone l’assoggetamento della ragione alla vita spontanea in quanto la ragione deve servire alla vita e non viceversa e in quanto il pensiero nasce come necessità vitale dell’individuo e come adeguamento alle cose.
Ortega ha avuto molto prestigio in Spagna ed Europa; la sua teoria delle minoranze scelte, che emerge dalla sua “Spagna invertebrata” e nella “Ribellione delle masse” ( in cui lamenta la perdita dei valori che solo una minoranza può possedere e imporre), e la difesa dell’antirealismo dell’arte contemporanea (che fugge dalla realtà fino ad affermarsi come libero gioco) ha influito su una generazione di scrittori spagnoli, apportando in esse un senso colto ed aristocratico dell’arte, sfociato spesso nell’intellettualismo.
Politicamente Ortega y Gasset è sostenitore della costruzione dell’Europa a grande Stato unitario.
Renato Cristin, in un articolo su “il pungolo.com”, “Il poeta che sapeva scrivere”, del 17 luglio 2003, a proposito di Ortega, dice:
“Per Ortega i limiti dell’uomo sono i limiti del suo linguaggio, come diceva anche Ludwig Wittgenstein, ma con altri presupposti e altri obiettivi. Il linguaggio è sempre limitato da una frontiera di ineffabilità” e perciò va compreso come massimo sforzo di trascendenza umana. L’uomo, “tremendo animale lirico”, si protende verso la parola con una tensione appassionata e spasmodica che coinvolge la sua intera esistenza. Ecco perché la filosofia del linguaggio deve abbandonare l’atteggiamento della semiologia, che si rivolge alle parole come mere unità di significato, e adottarne una nuova, che potremmo definire fenomenologica (e che Ortega accetterebbe), che osserva l’orizzonte delle parole e delle persone. Infatti il contesto è parte essenziale della parola, e la parola è “attività, dinamismo, pressione di un contorno su di essa e di essa sul contorno”, come diceva Ortega y Gasset.


Opere di Ortega y Gasset: “Meditazioni sul Chisciotte”, 1914; i saggi su lo “Spettatore”, 1916-34; “Spagna invertebrata”, 1921; “Il tema del nostro tempo”, 1923; “La disumanizzazione dell’arte”, 1925; “Che cos’è la filosofia”, 1929; “ La ribellione delle masse”, 1930; “Goethe dall’interno”, 1933; “Intorno a Galileo”, 1933; “Storia come sistema”, 1941; i volumi pubblicati postumi “L’uomo e la gente”, del 1957, “Meditazione d’Europa”, del 1960.

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martedì, settembre 26, 2006

NEWTON Isaac "Costruttore di bellezza"

Isaac NEWTON (1642- 1727)












Fisico, matematico e astronomo inglese. Newton, all’alba del Settecento,con le sue scoperte fondamentali sul calcolo infinitesimale, sulla natura della luce e sulla teoria della gravitazione universale, sui “Principi matematici della filosofia naturale” (1687), il moto dei fluidi, le leggi dell’urto, la teoria delle maree, ha posto le basi e ha fissato i procedimenti della scienza moderna. Oltre all’enorme importanza delle indicazioni metodologiche, che ebbero un’influenza grandissima su tutta la ricerca filosofica a partire dall’illuminismo, occorre anche ricordare che l’immagine dell’universo delineata, per i suoi caratteri di unità e di coerenza, fu il presupposto di larga parte della corrente della filosofia deistica, caratterizzata da una concezione di ”religione naturale” che si proponeva spontaneamente negli esseri umani.
Dopo CopernicoKeplero e Galilei, un problema a cui gli astronomi non riuscivano a trovare una risposta plausibile era quello di spiegare perché un pianeta si muoveva lungo un orbita ellittica e non rettilinea. Alla soluzione pervenne Newton con la scoperta della legge di gravitazione universale, in cui egli disse che :”due corpi si attirano con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza dal sole”.
Così, la grande massa del Sole esercita un’attrazione che costringe un pianeta a variare continuamente la propria direzione di moto (che altrimenti sarebbe rettilineo).
Nei problemi di ottica, Newton scopre la scomposizione della luce nello spettro di colori e sosterrà sempre un ateoria corpuscolare della luce, contro la teoria ondulatoria di Huygens.
Nel 1703, Newton fu eletto presidente della Royal Society, di cui era stato membro già dal 1672.
Nel suo “Trattato di ottica” (1704), Newton si chiedeva:
“Che cosa c’è in luoghi quasi completamente vuoti di materia, e donde deriva che il sole e i pianeti gravitino gli uni verso gli altri, senza che vi sia tra loro nessuna materia densa? Donde viene che la Natura non fa nulla invano, e da dove trae origine tutto quell’ordine e tutta quella bellezza che vediamo nel mondo? A qual fine esistono le comete, e donde viene che i pianeti si muovano tutti in un unico e medesimo modo in orbite concentriche? E che cosa impedisce alle stelle di precipitare le une sulle altre? E’ possibile che l’occhio sia stato costruito senza conoscenza di ottica, e l’orecchio senza nozioni di acustica? Donde viene l’istinto degli animali?”.
Nel suo sbalordimento davanti alla Creazione, Newton domandava: “Non risulta con evidenza dai fenomeni che esiste un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente il quale vede intimamente le cose stesse e le capisce interamente in virtù della loro presenza immediata a se stesso?”.

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PASCAL Blaise "Costruttore di bellezza"

Blaise PASCAL (1623 - 1662)











Matematico, fisico, filosofo e scrittore francese. Nella sua “Apologia della religione cattolica”, rimasta incompiuta per la morte prematura del suo autore, e pubblicata sotto il titolo di “Pensieri”(dai suoi amici della cosiddetta scuola di Port-Royal, nel 1670, dopo numerosi ritocchi) Pascal dice che gli argomenti della filosofia e della teologia non hanno presa sul ‘libertino’, sull’incredulo lontano da Cristo. I discorsi dei teologi possono consolidare la certezze del credente, non svegliare nel miscredente l’inquietudine e produrre quella presa di coscienza sulla quale si radica e cresce l’esigenza religiosa.
L’esperienza e la storia dell’uomo portano alla luce costantemente i contrasti e le contraddizioni in cui la vita stessa di ognuno di noi è coinvolta. Pascal mostra alla fine che il richiamo alla trascendenza e la fede nel Cristo mediatore danno senso a un dramma che risulterebbe altrimenti assurdo e senza soluzione.
Più che alla ragione Pascal si rivolge, dunque, in questa indagine, alle “ragioni del cuore”; e più che all’esprit de geometrie, all’esprit de finesse”. Egli dice che i limiti della ragione recano l’impossibilità di assorbire l’uomo “nell’ordine della geometria”. L’uomo, essere contraddittorio, cerca soprattutto la verità e non può mai raggiungerla; da essa lo tengono lontano le “potenze ingannatrici” che sono nella sua stessa natura: i sensi, la volontà, l’amore di sé, la ragione e l’immaginazione, “maestra di errore e di falsità (!?), lo confondono e lo fuorviano.
“Ciò che è vero al di qua dei Pirenei, è falso al di là” – scrive Pascal.
E poiché nessuno dei sistemi filosofici può soddisfarlo, l’uomo tenta di sfuggire alla sua condizione con il divertimento, gli svaghi, le distrazioni, o lasciandosi assorbire dalle occupazioni. Ma, malgrado tutto ciò e proprio perché è consapevole, l’uomo è grande: “L’uomo non è che una canna, la più nobile della natura, ma una canna che pensa. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero”.
Pascal è stato avvicinato ai grandi maestri dell’esistenzialismo e dell’irrazionalismo moderni, da Kierkegaard a Nietzsche, a Dostoevskij.
“I Pensieri” di Pascal è un’opera di confronto serrato in cui si scontrano le esigenze estreme della scienza e della religione (lui matematico e fisico, studioso del “vuoto”); un grande capolavoro letterario che getta sulla scena un nuovo eroe: l’uomo.
La coscienza è il sigillo e l’impronta della incontestabile superiorità dell’uomo: abisso di grandezza e di piccolezza, né angelo né bruto, enigma vivente, l’uomo può trovare la spiegazione di se stesso solo nella religione. E, fra tutte le religioni, la cattolica è quella che rende meglio conto della nostra natura, in quanto spiega la nostra grandezza con la creazione divina, la nostra debolezza col peccato originale e la possibilità del riscatto con la Croce di Cristo.
Il celebre argomento della “scommessa” che Pascal pone è:” Vale la pena di rischiare una vita disordinata e spregiudicata, nel libero soddisfacimento degli istinti, piuttosto che per un premio di fede religiosa e di razionale moralità nei comportamenti? ”. Se comunque, la fede ci sarà data, allora capiremo anche il valore di quelle altre prove del libro biblico, con la figura raggiante del Figlio di Dio con cui si doveva concludere l’opera di Pascal: è Lui, il Cristo, il punto di arrivo di questo itinerario e la soluzione di tutti i drammi dell’uomo.

Riprendo e sintetizzo, perché li condivido pienamente, i commenti che il prof. Ugo M. Palanza fa sull’opera di Pascal, in “Capolavori della letteratura straniera” – Società Edit. Dante Alighieri 1957.

Siamo quindi di fronte ad un opera piena di ricchezza di pensiero e di viva e palpitante ispirazione che potrebbe essere posta accanto alle “Confessioni” di S. Agostino senza esitazione.
Pascal trae dal suo travaglio intimo il motivo delle sue riflessioni; fa di se stesso lo specchio dell’umanità; è convinto che l’umanità è partecipe del suo dramma e comincia col rivolgersi ai “libertini” che vivono indifferenti ai problemi dell’anima: “L’immortalità dell’anima è una cosa che c’importa tanto, che ci riguarda così profondamente, che bisogna aver perduto completamente la ragione per restare indifferenti di fronte alla conoscenza del nostro destino”. A questi numerosi “apatici” egli si rivolge soprattutto, in quel suo grande desiderio di perquisire nei meandri del nostro essere alla ricerca di motivi che rompano l’abulia, costringano a mettere a fuoco e fissare sulla strada giusta il problema “cristiano” della nostra esistenza: perché fuori dal Cristianesimo non c’è salvezza.
Cos’è questo piccolo essere che si dice uomo e che conosce il senso del dolore e della felicità, del bene e del male, che contempla le altezze ed è inchiodato sulla terra? – chiede Pascal . Non può essere altro che quello stesso Adamo che uscì perfetto dalle mani del Creatore e che divenne imperfetto e debole per sua scelta, incapace di risalire e rinascere con le sue forze nella vita senza guardare e ritornare verso gli insegnamenti del suo Creatore.
Pascal non muove da una verità bella e pronta da presentare ai miscredenti; egli muove dalla vita stessa, dalle nostre attese, dalle pene e dalle gioie, dalle miserie e dalle grandezze: pone gli enigmi davanti agli occhi di tutti, perché ci sia accorga della necessità che non c’è altra soluzione, all’infuori della scelta di vita cristiana.
I “Pensieri”, con i quali Pascal fissa i caratteri della nostra natura umana sono scolpiti con potenza di realismo psicologico, con esattezza dialettica e adeguazione immediata alla tormentata essenza umana. Egli scrive:

“Un uomo si mette alla finestra per vedere i passanti; se io passo di là, posso dire che si è messo alla finestra per vedere me? No, non pensa a me in particolare, guarda intorno e vede tante cose.
Ma chi ama qualcuno a causa della sua bellezza, l’ama forse? No, poiché il vaiolo, che distrugge la bellezza senza uccidere la persona, farà che egli non l’amerà più.
E se mi si ama per il mio ingegno, per la memoria, si ama forse “me”? No, perché io posso perdere quelle qualità, senza perdermi io stesso. Dov’è dunque questo “io”, se non è nel corpo né nell’anima?...Posso ben concepire un uomo senza mani, senza piedi, testa…ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto…Il pensiero fa la grandezza dell’uomo. L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di quel che l’uccide, perché sa di morire e conosce la forza che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla.
Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ lì che dobbiamo elevarci e non nello spazio e nel tempo, che non sapremmo riempire. Lavoriamo, dunque, a ben pensare: ecco il principio della morale”.

Ma è cosa facile lavorare a ben pensare? E quando si è detto che la dignità dell’uomo è nel pensiero si è detto tutto dell’uomo? Purtroppo, non si è detto tutto! L’uomo è un campo di battaglia: un campo di battaglia delle più singolari contraddizioni; un istinto ci innalza ma le contraddizioni e le miserie ci sopravanzano e sono infinite. Pascal dice:
“Se non ci fossero che la ragione, senza le passioni…Se non ci fossero che le passioni, senza la ragione…Ma avendo l’una e le altre, egli (l’uomo) non può essere senza guerra, non potendo avere la pace con l’una, se non essendo in guerra con le altre; così è sempre diviso e contrario a se stesso… Questa duplicità dell’uomo è così evidente, che alcuni hanno pensato che noi abbiamo due anime”. .. e continua ironizzando sulle varie possibilità: un’anima per la verità, un’altra asservita ai sensi; una per la felicità, un’altra per il male e la miseria; una per l’infinito, un’altra per il finito ed il contingente; una che ci porta verso Dio, un’altra che ci getta sul piano dei bruti. Quale filosofo, dunque, può dare una soluzione soddisfacente a questo mistero? Nessuno, in buona fede, può dire di conoscere la soluzione. Ma nel piano soprannaturale della religione, e religione cristiana, si può trovare la soluzione dell’enigma; solo il Cristianesimo può dirci cosa sia questo nostro tendere all’alto e questo nostro stare nel fango; può dirci cosa sia la tristezza della nostra miseria”.

Può dunque l’uomo da solo, con le sue forze, rinascere? La sua rinascita è legata al Cristo: da Lui la grazia, attraverso di Lui la possibilità di risalire l’abisso.
Pascal: “Non conosciamo Dio che per Gesù Cristo. Senza questo Mediatore, è tolta ogni comunicazione con Dio; per Gesù Cristo noi conosciamo Dio”.

Ma quali prove abbiamo della verità della rivelazione cristiana e della divinità di Gesù Cristo? Secondo Pascal le prove sono molte: “per provare Gesù Cristo abbiamo le profezie, che sono prove solide e palpabili. E queste profezie essendosi avverate e dimostrate vere dagli avvenimenti, confermano la certezza della verità e quindi la prova della Divinità di Gesù Cristo”.
E poi ci sono i miracoli, l’altezza della morale evangelica, la prodigiosa propagazione della Buona Novella. Tuttavia queste prove possono apparire non “assolutamente convincenti” se ad esse si guarda con l’occhio freddo della pura ragione. La ragione, con la squallida tendenza alle analisi, può determinare il crollo dell’edificio più bello. Ma ci sono altre ragioni e sono quelle del cuore, che la ragione non conosce, ma che pure esistono e che sono capaci di determinare la conquista della verità in un modo “tutto interiore ed immediato”; con siffatte ragioni, che poi sono un sentimento, occorre prepararsi allo studio delle verità rivelate. Allora ogni dubbio scompare e tutto appare chiaro ed evidente.
E’ questo il senso del misticismo di Blaise Pascal; misticismo che ripete motivi tradizionali, ma che pure ha toni, calore, passione, svolgimento assolutamente nuovi e personali. Si possono dare dimostrazioni naturali dell’esistenza di Dio e della immortalità dell’anima; si può dimostrare che le verità numeriche sono verità immateriali…ma tutte queste conoscenze sono inutili e sterili, senza Gesù Cristo. Senza Gesù si ha un Dio “semplicemente autore di verità geometriche e degli ordini degli elementi”, ma con Gesù “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani diviene un Dio d’amore e di consolazione, un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che lo possiedono, un Dio che fa loro sentire interiormente nel profondo dell’anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza, d’amore; che li rende capaci di avere un fine ben preciso: seguire la sua gloria, la sua creazione, gli insegnamenti di GesùCristo, per cercare di giungere a Lui stesso”.

Gli studiosi di Pascal sentono, in queste parole, l’eco della voce di S. Paolo e di S. Agostino, ma vi sentono anche l’esempio di un sentimento nuovo, la vena di un’acqua che non può affondare e che riemerge di generazione in generazione.
Le pagine più belle dei “Pensieri” sono quelle in cui quest’acqua purificatrice arriva lenta e sommessa, come in un sogno profetico. Sentite nel “Mistero di Gesù” questo colloquio:
“Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi trovato. Ho pensato a te nella mia agonia, ho versato per te queste gocce di sangue. E mi tenta, più che mettere te alla prova, il pensare se farai bene questa o quell’altra cosa lontana: lo farò io, in te, se occorrerà. Lasciati condurre dalle mie regole, vedi come ho ben guidato la Vergine ed i Santi che mi hanno lasciato agire in loro. Il Padre ama tutto ciò che io faccio. Vuoi tu che io versi sempre sangue della mia umanità, senza che tu dia lacrime? E’ affar mio la tua conversione: non temere e prega con fiducia come per me. Io ti sono presente con la mia parola nella Scrittura, col mio spirito nella Chiesa e nelle aspirazioni, con la mia potenza nei sacerdoti, con la mia preghiera nei fedeli. I medici non ti guariranno, perché alla fine morirai. Ma sono io che guarisco, e rendo immortale il corpo. Soffri le catene e la schiavitù corporali, io per ora non ti libero che da quella spirituale. Io ti sono più amico di questo e di quell’altro; perché ho fatto per te più di loro ed essi non soffrirebbero quel che io ho sofferto da te e non morirebbero per te nel tempo delle tue infedeltà e crudeltà, come ho fatto io e come sono pronto a fare e faccio nei miei eletti nel Santo Sacramento. Se tu conoscessi i tuoi peccati, ti perderesti d’animo”.
“Mi smarrirò, dunque, o Signore, perché io credo alla loro malizia per vostra testimonianza”.
“No, perché io, da cui tu hai avuto la possibilità di conoscere la malizia, te ne posso guarire, e il fatto che te lo dico è segno che voglio guarirti. A misura che li avrai espiati, li conoscerai, e ti sarà detto: “ecco i peccati nascosti e per l’occulta malizia di quelli che tu conosci”.
“Signore, io vi do tutto”.
“Io ti amo più ardentemente di quanto tu non abbia amato le tue brutture, ‘ut immundus pro luto’ (‘affinché l’immondo sia fango’)”.

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lunedì, settembre 25, 2006

ARCHITETTURA: la bellezza nell'ingegno costruttivo e nella forma edificata - di Ettore Mosciàno.


La edificazione architettonica, nella sua forma e nella sua luce, con il fuoco creativo razionale del costruttore, suggerire ed indica con la materia edificata un'immagine ed un simbolo che in ogni osservatore può trasformarsi in pensiero vitale di coscienza spirituale. L'edificio, nel luogo e nello spazio in cui tale forma insiste, quando ha determinati criteri progettuali e costruttivi, consente riflessioni non solo sulla bellezza apparente, ma anche l' appagamento nel vivere una armonia spirituale: il pensiero dilata e viene condotto oltre la funzione della materia in sé.
Le opere architettoniche sono i simboli della edificazione strutturata e di armonia con l’ambiente. Questi simboli hanno un linguaggio che comunica bellezza nella realizzazione progettuale creativa: verticalità, prospettiva, spazio protettivo e di raccoglimento intimo e collettivo, luminosità spaziale interna ed esternata (vuoti e pieni, pareti in materiali trasparenti e riflettenti di facciata per l’architettura contemporanea), ritmo nel movimento configurativo, uso dei materiali naturali e della nuova tecnologia.
Oltre ai ritmi e alle proporzioni, alle forme ed agli spazi, a completare l’opera architettonica partecipa anche il colore. Esso può essere rappresentato dall’impiego di materiali diversi come dalla loro diversa lavorazione, dalla decorazione pittorica come dal giuoco delle ombre, dai graffiti o dal tono di una superficie rispetto all’ambiente.


COSTRUTTORI DI BELLEZZA

FUKSAS Massimiliano (Roma, 1944 – viv.) “La coscienza critica della città e della contemporaneità”. “La bellezza e la luce”.











Architetto e urbanista. Allievo di L. Quadroni, titolare di studi a Roma, Parigi e Vienna, svolge anche attività di critico. Nel 1998-2001 ha diretto la sezione di architettura della Biennale di Venezia.
A proposito della vita nella città di Roma, ha dichiarato:
“Seppur ricca di allettanti siti archeologici, opere e monumenti a non finire, Roma si perde in questa sua cattiva gestione della cittadinanza, della sua presenza, dei suoi bisogni e dei suoi pericoli. Bisognerebbe sconfiggere la maleducazione della gente. Liberare le strade dalle auto. Bisogna spostarsi tutti a piedi o sui mezzi pubblici. Basta con i parcheggi selvagge col caos di otto o novecento motorini, che creano una situazione di grande pericolo” (…) “Io credo che il centro storico di Roma o aree abbastanza consolidate che si trovano tra la periferia e la città, siano molto pericolose a causa del parcheggio selvaggio. In caso di emergenza, infatti, motorini e macchine renderebbero difficile far uscire o far entrare i mezzi di soccorso e non solo” (…) “ All’estero è normale che le strade siano pulite ed il verde curato. A Roma, invece, del malcostume se ne deve occupare il sindaco o l’assessore, ogni problema richiede interventi straordinari”.(…)
















(…). “Per ciò che riguarda questa nostra era della globalizzazione, delle automazioni elettroniche e della telecomunicazione, Fuksas dice: “ io credo che la tecnologia non faccia perdere nessuna memoria. La tecnologia è uno strumento. Anche la forchetta e il coltello sono tecnologie. Dobbiamo pensare che tutto quello che arriva e arriverà nei prossimi anni è parte del nostro mondo. La memoria della città non si può perdere, anzi si può acquisire. Il problema è il rapporto tra virtuale e reale, che devono essere fortemente legati, perché l’individuo ha un’idea e un concetto e poi sperimenta quello che pensa. Anche quando camminiamo, quando mettiamo un piede dopo l’altro, si tratta di una sperimentazione di quello che pensiamo. C’è sempre una parte di virtuale, di idea, di concetto e una parte di realtà. Perciò, credo che la città sia parte integrante di questo nuovo processo. Tecnologia virtuale e reale fanno parte dello stesso mondo”.(…)












“Il computer ha determinato la capacità di comprendere cose che prima non riuscivamo ad analizzare, a vedere. Possiamo entrare nella materia, nello spazio interno, cosa che avevamo grande difficoltà a fare prima. Da un aparte c’è il modello reale, dall’altra il modello virtuale: in poche parole, da una parte abbiamo il plastico, fatto di materia, di legno, di materiale traslucido; dall’altra il mondo del virtuale, che è il computer. Si può correggere l’immagine virtuale del computer con il modello. Reale e virtuale fanno parte di un nuovo modo di vedere la realtà. Certo non avrei mai potuto fare progetti come quelli che faccio adesso vent’anni fa. Anche se li avevo già intuiti, era facile incorrere in errori, perché non riuscivamo a controllare forme che non sono forme, ma sono informi”.(…)
“Non c’è bisogno di integrare la comunicazione con l’architettura: l’architettura è comunicazione, se non comunica, non serve assolutamente a niente. L’architettura è comunicazione, se non comunica, non serve assolutamente a niente. L’architettura nasce per una voglia fortissima di dare emozioni, di dare immagini, di dare anche una magia. La comunicazione fa parte dell’architettura. In realtà, la paura di molti di un’architettura che è solo immagini è riferita a un’architettura formalista o vuota. Un cubo neorealista tristissimo può essere altrettanto stupido e brutto di una forma estremamente dilatata o priva di geometrie classiche o semplici. Il problema è nelle idee e nella magia che esse comunicano. L’architettura se non riesce a comunicare e non riesce a dare quella magia che ci manca, non ha senso”.(…)
“Non credo assolutamente che la gente diventi sempre più sedentaria, anzi credo che acquisti in mobilità. Uno può stare fermo, muovendosi. Per esempio, con il cellulare, l’auto è diventata un ufficio. Il vero problema delle nostre città è la capacità di interconnessione e di comunicazione. Il problema non è che Internet o la televisione tengono la gente inchiodata. Questa è la paura del diavolo: il diavolo come tecnologia. La tecnologia, e soprattutto Internet, ti mette in comunicazione con una gran parte del mondo: il problema è in che modo noi riusciamo a utilizzare quello che impariamo. Siamo ancora in una fase critica: usiamo Internet in un modo sballato, pressappochista, quasi come una chat line, un luogo di chicchere e di pettegolezzi. Il ruolo di Internet è ancora tutto da scoprire.(…)
“La tecnologia in architettura non serve assolutamente per fabbricare lo spazio. Lo spazio si fabbrica con la testa: prima di fare un progetto, lo si deve immaginare. Le idee sono nella testa e da qui devono uscire fuori. Il passaggio non avviene attraverso la tecnologia ma tramite la traduzione di quello che si immagina in qualcosa che sarà reale.(…)

“Le tecnologie non sono né democratiche, né totalitarie. Dipende dall’uso che se ne fa. Internet, ad esempio, si può usare per dominare gli altri o per aiutarli: la Biennale di Venezia del 2000 da me curata comunicava proprio il fatto che noi possiamo usare le nuove tecnologie per migliorare le condizioni degli altri”.(…)
A proposito della multietnicità e del plurilinguismo, della contaminazione di stili architettonici:
“Se la gente si sposta, nasce il métissage: una popolazione che perde le sue origini, ma diventa parte di un’altra realtà. Non si può pensare un’architettura che non abbia una forma di métissage. Non credo a un’architetura internazionale, non credo che un prodotto, un progetto pensato in un solo paese possa esportarsi in tutto il mondo. Già dal tempo dei Greci e dei Romani, quando si costruiva nell’allora Medio Oriente, l’architettura romana subiva dei cambiamenti sostanziali: Alessandria non era assolutamente confrontabile a Roma”. (…)
“Non cambia la fisionomia della città. Cambia il concetto di città. Per città noi intendiamo qualcosa di estremamente piccolo, che ha un dentro e un fuori. Roma, all’interno delle Mura aureliane, conta oggi 127mila abitanti. I romani però sono 4 milioni. Dove vivono gli altri? Nelle periferie. E qual è la città? Secondo me è l’altra. Io abolirei anche la parola periferia, perché non esiste più. La città è cambiata anche perché adesso in un luogo dove prima vivevano pochissime persone, ne vivono tantissime: l’area di Città del Messico conta 22 milioni, l’area di Calcutta 44 milioni, l’area di Tokio 56 milioni. Questa dimensione cambia il concetto di città: si tratta di megalopoli. E’ con questi luoghi di grandi densità che dobbiamo confrontarci”. (…)
“Sono passati vent’anni dalle prime mediateche costruite; esse appartengono tipicamente agli anni Ottanta. Io ne ho costruite almeno tre o quattro in Francia. All’epoca era un progetto innovativo, in quanto si mettevano insieme video, tecnologia, computer, informatica, e poi libri. la mediateca era un luogo completamente democratico, una realtà legata all’urbanità e al cittadino. I nuovi luoghi della cultura non saranno più le mediateche ma i luoghi marginali, che ancora non sono stati colonizzati. La città di New York, come tutte le città che hanno un passato produttivo, riesce a trasformare grandi aree produttive volta per volta in aree prima di arte, di cultura e poi di speculazione. L’arte e la cultura della città possono colonizzare aree che sono abbandonate. L’errore è stato, nel caso per esempio della Bicocca di Milano, di non colonizzare attraverso l’arte, ma di fare un piano urbanistico. I piani urbanistici sono sempre poveri, tristi posti in cui nessuno vuole andare a vivere e tutti si sentono marginali, di una marginalità terribile che è la non identificazione con se stessi”. (…)
“Alla Biennale di Venezia del 2000 abbiamo fatto un muro di immagini di 300 metri: è chiaro che una cosa del genere prima non l’avremmo mai potuta fare. Si deve guardare a questo, al lavoro dei videoartisti, alla fotografia. I migliori artisti oggi sono quelli che usano la fotografia, Vincent Gallo ad esempio. L’immagine ha una forza, una potenza espressiva che quasi non troviamo più nel mondo della pittura”. (…)
“Quando si progetta un edificio, si pensa prima di tutto a chi ci dovrà andare ad abitare. L’architetto e l’artista vogliono entrare in contatto con l’utilizzatore finale. La tecnologia non è neanche un plus valore, è un mezzo per arrivare a questo. Ritorniamo all’origine della questione, che nasce all’inizio del Novecento, quando si pensava che la rivoluzione tecnologica potesse anche portare a dare a tutti degli oggetti d’uso che migliorassero la qualità della vita e anche dell’estetica”. (…)
“L’architettura attualmente è ancora vecchia. Noi usiamo materiali vecchi e un procedimento antichissimo. Possiamo accelerare i tempi rispetto al passato – benché il Colosseo sia stato costruito in cinque anni – ma in realtà usiamo sempre gli stessi materiali: pietra, acciaio, mattoni, vetri. Tutta la ricerca spaziale non ha avuto ancora una ricaduta reale. Per costruire la “Nuvola”, del Centro Congressi all’EUR di Roma, ho usato il Goretex, un materiale traslucido, tessile, che deriva dalla ricerca spaziale, ma il mondo della tecnologia non ha toccato completamente quello dell’architettura. L’unica cosa che abbiamo veramente guadagnato è la precisione dei disegni”. (…)
Ed a proposito della luce:
“La cosa che possiamo avere sicuramente è la luce. Tutta l’architettura che ho fatto negli ultimi vent’anni è completamente compresa nel concetto di luce. L’idea è quella di un edificio che restituisca durante la notte la luce presa di giorno, tirandola fuori da se stessa. Abbiamo fatto una grande ricerca sulla qualità e la tecnica della luce: adesso ci sono dei programmi che ci permettono di comprendere e prevedere tutti i cambiamenti di luce”. (…)

“Per la realizzazione dell’”Agenzia Spaziale Italiana”, a Roma, saranno utilizzate tutte le nuove tecnologie. La facciata non è più una facciata: essa diventa uno schermo, cioè un luogo d’informazione. Non è più decorazione ma diventa immagine. E’ una facciata che può cambiare colore o densità, può essere trasparente, traslucida o opaca, sulla quale si può proiettare. In tal modo, la gente che passa può vedere il lancio a Cape Canaveral di un satellite oppure quello che succede all’interno, nell’area del museo. E’ un uso che dà maggiori informazioni: la tecnologia è dare maggiori informazioni.
Il “Palazzo dei Congressi” è un’altra cosa: c’è una pellicola incredibile che chiude un grande involucro, nel quale dall’interno si vede arrivare la luce, dall’esterno si vede di notte una grande massa luminosa sospesa solo su tre punti dentro un volume traslucido nel quale si percepiscono le ombre e si vede una grande massa. L’uso della tecnologia ci permette svariate cose: prima di tutto un maggiore controllo di tutto il processo progettuale e costruttivo. Ma questo non vuol dire assolutamente che perdiamo fantasia. C’è una questione di fondo sotto tutti gli interrogativi riguardanti la tecnologia: l’uomo cambierà? Continuerà a sentire nonostante la tecnologia? Non sarà ucciso, mangiato, fatto a pezzi da Internet, dai visori, dai sensori, dai video, dagli apparecchi, dai gadget? Progetteremo case solo per farci vivere in questa specie di grande blob di immagini? Non credo. Finché un uomo dopo qualsiasi catastrofe scriverà tre versi e qualcuno piangerà sarà sempre lo stesso. La commozione farà parte della nostra vita”.

Opere di Fuksas: Europark SPAR, Salisburgo, 1994; Maison des Arts, università Michel de Montagne, Bordeaux, 1993-95; Liceo Maximilien Perret, Alfortville, 1995; Twin Towers, Vienna, 1995-2001; Facoltà di legge ed economia, Limoges, 1996; Centro della pace, Giaffa, 1998; Centro Congressi all’EUR, Roma, 1999; Agenzia spaziale italiana, Roma, 2000-2003; Centro per esposizioni e congressi, Angouleme, 2001-2003;Palazzo della Regione Piemonte, Torino, 2001-…

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sabato, settembre 23, 2006

FLORENSKIJ Pavel Alessandrovic: (poesia dedicata a...) di Ettore Mosciàno

Pavel Aleksandrovič FLORENSKIJ (1882-1937. Scrittore, fisico e teologo russo.
Uno dei grandi geni del XX secolo, il “Pascal russo”, fucilato in un gulag nel 1937.
Opere: “La colonna e il fondamento della verità”, 1913; “Il significato dell’idealismo”, 1914; “Le porte regali”, 1922).















Pavel FLORENSKIJ (dedicata a)


Eternità, amata solitaria
misteriosa onda in cui si circonda
il corpo in fossa sconosciuta di Pavel
che scrisse sul leggio della chiesa
alla luce della lampada sacra
e il mare e le onde d'estate
e la schiuma e la risacca
d'armonie di silenzio al proprio mistero.

E il tempo andato da qualche parte
lentamente osservato addormentarsi
ed egli fino ad esso a risvegliarlo
dal gulag siberiano, dal gelo perpetuo
e dal cielo nero della bestia staliniana.

"Memorie dei giorni passati, non vi dimentico
non dimenticatemi "
"tutto è stato", "è accaduto", "è successo"
per rischiarare tenebre ed infinito
figlio e padre di un delicato affresco
d'umana volontà pensiero fecondo e grido
di un evangelico nido e calore mistico
negli spazi celesti per sottili confluenze.

Risorgi, albero della vita, figlio delle acque
forza della terra che nutre, statua sonora.

Ettore Mosciàno

Roma, 23 aprile 2003

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MARTINETTI Piero - Recensione di Ettore Mosciàno su "Breviario spirituale".

“BREVIARIO SPIRITUALE” di Piero MARTINETTI.

(Edizioni Utet “gli Imprescindibili”, 2006. Prefazione di Anacleto Verrecchia. Euro 15,00).

“Una profonda ed appassionata disamina del cammino morale verso la saggezza e la bellezza spirituale” di Ettore Mosciàno.













Non concordiamo con l’orientamento indicato nella prefazione da Anacleto Verrecchia, a proposito della scelta religiosa dell’autore del “Breviario”. Il Verrecchia richiama la figura di Martinetti come il più importante epigono italiano di Schopenhauer (che era induista) e lo indica come seguace della religione buddista. Non ci informa che nei libri successivi del Martinetti “Gesù Cristo e il Cristianesimo”, del 1934, e “Il Vangelo”, del 1936, il filosofo piemontese ha sempre più mostrato il suo discostamento dalle filosofie religiose orientali, restando, è vero, un anticlericale, ma immerso nel cammino della ricerca di Verità nella figura di Gesù Cristo.
Martinetti sosteneva che la Chiesa aveva rinnegato i principi di Cristo; ma lui, tuttavia, con la sua religiosità laica, si rimetteva a “Colui che solo può giudicare della verità e dell’errore, perché Egli solo è la Verità”.
La filosofia di Martinetti ha comunque ragione esistenziale e convinzione profonda in una spiritualità che bisogna guadagnarsi sulla terra, con le proprie scelte fatte quotidianamente, attraverso le buone azioni e i comportamenti virtuosi, con temperanza, pazienza, perseveranza, obbligo dei doveri familiari, rispetto per gli animali e per tutte le tradizioni religiose.
La sua tesi di laurea in filosofia fu “Il sistema Sankhya”: uno studio sulla religione induista. Successivamente, Martinetti si convince sempre più che “nell’educazione religiosa all’umanità vi sia il “regno dei fini” di cui parlava Kant. Le qualità da imitare sono quelle che si trovano negli uomini semplici, come quelli che figurano nei Vangeli o tra i profeti: nostre guide terrene di spiritualità e direzione morale.
Seppure spinto dall’idea di salvare la moralità e la spiritualità, insite nel messaggio di Gesù Cristo, Martinetti fa però di questo Maestro un mito, una leggenda edificante, ma non riconosce autorità alla Chiesa, ai dogmi, alle cerimonie “sacre”. Per lui Gesù non era figlio di Dio resuscitato da morte, ma profeta e Messia.
La spiritualità di Martinetti è tutta improntata nelle azioni sulla Terra, ma il disegno e il desiderio del traguardo erano di un’anima cristiana, che anelava ad un’armonia con la trascendenza, a cui non ha dato volutamente unica figurazione.
In Martinetti, pur nella sua grande riflessione, coincidono il pensiero puro, autentico e religioso, con la più perfetta laicità. Sublimando una filosofia morale di semplice applicazione nella vita quotidiana, Martinetti auspicava che tale filosofia sostituisse la predicazione e le cerimonie ecclesiastiche.

Il valore del suo “Breviario spirituale” sta nel fatto che Martinetti traccia ragionati percorsi del pensiero religioso laico, enunciando modalità per formarlo e ordinarlo, tanto da poterne far uso con semplicità nelle azioni quotidiane.
Egli ci espone il pericolo degli istinti e ci invita a considerare la ragione come fine ideale, ben sapendo che essa ha limiti soggettivi; ciononostante, egli è convinto che con la razionalità e l'autodisciplina si può raggiungere l’unità per una spiritualità collettiva.
La ragione negli uomini è alla superficie della loro attività, nell’usare i mezzi e coordinarli. Le forze che animano queste attività provengono da impulsi istintivi ed oscuri, di cui l’uomo spesso non sa darsi e non cerca ragione nel fine come bene umanitario. L’uomo conosce solo il bene come produzione progressiva utile, ma limitata dalla sua singola mentalità e visione d’orizzonte, in una illusione morale che oggi è esaltazione e domani una delusione. Uno stato di contentezza ed entusiasmo si alterna ad uno di tristezza e scoraggiamento; e così per tutto il suo avvenire.
Perciò, ogni atto umano è un errore ed un ammaestramento. Noi non possiamo vedere in questo progresso alcun limite definitivo.
Dove trovare la ragione superiore, definitiva?
Dovunque noi volgiamo lo sguardo non troviamo nella vita umana niente di stabile e di definitivo: l’illusione dura quanto la vita.
Per questo non vi è, almeno nella condotta e nella opinione individuale, una morale: ma vi sono concezioni e giudizi morali diversi secondo le classi sociali e le diverse condizioni. Ciò dipende dalla mancanza di comprensione della vita e delle altre condizioni personali, oltre la nostra.
C’è una incapacità di allargare lo sguardo della nostra visione.
Martinetti dice: “Il bene e la ragione sono come un faro di luce che ciascuno guarda soltanto da lontano, attraverso i preconcetti della sua condizione e del suo tempo”.

Le considerazioni fatte finora parrebbero condurci nel vicolo cieco dell'individualismo, dell'anarchia e del relativismo etico; ma Martinetti ci invita a comprendere il significato e il valore della vita, ed indica quale deve essere la volontà, quali le scelte consapevoli per motivati percorsi di sentieri spirituali.

Lo spirito dell’uomo non sa elevarsi al di là della barriera che la vita associativa e lavorativa, delle comunicazioni generiche e popolari, hanno costruito intorno al suo essere fisico.
Se si guarda al mondo intero con sguardo più ampio e comprensivo, le nostre azioni risulteranno più equilibrate e fatte con più saggezza. Questa concordanza di intenti e di esperienze ci avvicina ad una stabilità e ad una unità che non potranno essere sensibilmente alterate e che ci porteranno molto più vicino al concetto di ragione; cosicché tutte le volontà dell’uomo cooperino armonicamente, avendo dinnanzi la direzione cardinale della vita con cui misurare gli affetti e le azioni.

L’uomo è tanto più libero quanto è ragionevole e non si lascia andare agli impulsi delle passioni e delle cupidigie: questo lasciarsi andare non è libertà, ma insensatezza di chi non conosce o vuol conoscere la causa del suo modo di agire.

L’ideale unità e la consapevolezza, di essere e di agire in rapporto continuo con l’umanità e il mondo, danno all’uomo la possibilità di non lasciarsi condizionare dai poco significativi rapporti quotidiani di svago, d'intrattenimento e di ricerca del piacere sessuale. La ragione si solleva sopra i luoghi e i tempi e ci conduce oltre i momenti e le passioni con un linguaggio di significato più alto, oltre le miserie, le vanità e l’amarezza, per una serenità più grande ed una maggiore libertà interiore.
Se c’è questa volontà, ci si serve dei beni terreni giudicandoli adeguatamente per ciò che valgono nelle limitazioni particolari del momento, con un consapevole dominio di se stessi.
Il cammino dell’uomo nella sua vita, allora, sarebbe aperto ad un orizzonte estremamente potente dello spirito, mai definitivo, ma tuttavia in tensione comune e bene comune di libertà e di ragione.
Le religioni sono tradizioni di vita razionale. Nell’umanità vi sono tradizioni di saggezza e di ragione a cui l’uomo può fare riferimento e svolgere le più alte facoltà che ha.
Queste tradizioni di saggezza morale sono le grandi religioni. Esse, sebbene possano essere state corrotte dalle loro istituzioni nei luoghi e nei tempi, come qualsiasi cosa umana, hanno il merito inestimabile di farci capire “che il fine ed il valore vero della vita sono al di là della vita” – dice Martinetti. Per cui, anche quando la scienza con le sue scoperte e i suoi teoremi, nel suo progresso, cerca di scalzare la fiducia nelle tradizioni religiose e nelle loro essenziali affermazioni, l’uomo tornerà sempre con assetata volontà e desiderio a cercare spiegazioni e risposte proprio in queste tradizioni, in ciò che lo lega alle storie millenarie dei popoli, alle attese di una superiore rivelazione di luce, di saggezza e armonia con il suo passato storico religioso, perché di esso fa parte e di esso hanno fatto parte gli altri uomini.

Intorno ai nobili spiriti di coloro che ci hanno preceduto, e che hanno ragionato su queste tradizioni, è il cammino ragionevole e volenteroso di tutti gli altri uomini futuri; è a questi ultimi che vengono lasciate le opere e la cultura, come bene collettivo che non può morire.
Il filosofo Nicola Abbagnano trattando della filosofia di Martinetti disse che era “una specie di misticismo della ragione”.
Nel “Breviario spirituale”, come ben scrive Vittorio Mathieu in quarta di copertina, “Martinetti segue l’uomo nel suo elevarsi dal cieco impulso al dominio razionale di sé in cui consiste la vera libertà… La sfiducia nel valore della vita non può essere superata che con la contemplazione dell’Eterno e la convinzione che l’uomo è destinato a trovare il suo riposo in qualcosa che è al di sopra dell’umanità stessa”.
Bisognerebbe anche rileggersi cosa scriveva Giovanni Papini, nel clima culturale di quell'epoca, nella introduzione alla sua "Storia di Cristo" (che è del 1921, riferendosi ad altri autori; Martinetti pubblicherà il suo "Breviario spirituale" nel 1923). Papini,in "Storia di Cristo", scriveva già allora queste parole:


“Da cinquecent’anni quelli che si dicono ‘spiriti liberi’ perché hanno disertato la Milizia per gli Ergastoli smaniano per assassinare una seconda volta Gesù. Per ucciderlo nei cuori degli uomini.
Appena parve che la seconda agonia di Cristo fosse ai penultimi rantoli vennero innanzi i necrofori”. (…) “cervelli aerostatici che credevano di toccare le sommità del cielo montando nel pallon volante della filosofia e di metafisica si armarono – l’Uomo lo vuole! – come tanti crociati contro la Croce. Certi frottolanti svolazzatori fecero vedere in candela, con una fantasia da far vergogna alla famosa Radcliffe, che la storia degli Evangeli era una leggenda attraverso la quale si poteva tutt’la più ricostruire una vita naturale di Gesù, il quale fu per un terzo profeta, per un terzo negromante e per quell’altro terzo arruffapopoli; e non fece miracoli, fuor della guarigione ipnotica di qualche ossesso, e non morì sulla croce ma si svegliò nel freddo della tomba e riapparve con arie misteriose per far credere d’aver risuscitato. Altri dimostravano, come quattro e quattro fa otto, che Gesù è un mito creato ai tempi di Augusto e di Tiberio e che tutti gli Evangeli si riducono ad un intarsio inabile di testi profetici. Altri rappresentarono Gesù come un buon uomo ma troppo esaltato e fantastico, ch’era stato a scuola dai Greci, dai Buddisti e dagli Esseni e aveva rimpastato alla meglio i suoi plagi per farsi credere il Messia d’Israele. Altri ne fecero un umanitario maniaco, precursore di Rousseau e della divina Democrazia: uomo eccellente, per i suoi tempi, ma che oggi si metterebbe sotto la cura d’ un alienista. Altri, infine, per farla finita per sempre, ripresero l’idea del mito e a forza di almanaccamenti e comparazioni conclusero che Gesù non era mai nato in nessun luogo del mondo.
Ma chi avrebbe preso il luogo del grande Sbandito? Profonda ogni giorno di più era la fossa eppure non riuscivano a sotterrarlo tutto.
Ed ecco una squadra di lampionai e riquadratori dello spirito a fabbricar religioni per il consumo degli irreligiosi. Per tutto l’Ottocento le sfornarono a coppie e mezze dozzine per volta. La religione della Verità, dello Spirito, del Proletariato, dell’Eroe, dell’Umanità, della Patria, dell’Impero, della Ragione, della Bellezza, della Natura, della Solidarietà, dell’Antichità, dell’Energia, della Pace, del Dolore, della Pietà, dell’Io, del Futuro e via di seguito. Alcune non erano che raffazzonamenti di Cristianesimo scoronato e disossato, di Cristianesimo senza Dio; le più eran politiche o filosofie che tentavano di mutarsi in mistiche. Ma i fedeli eran pochi e stracco l’ardore. Quelle ghiacciate astrazioni, benché sostenute talvolta da interessi sociali o da passioni letterarie, non riempivano i cuori da’ quali s’era voluto scerpere Gesù.
Si tentò, allora, di accozzare dei facsimili di religioni che avessero, meglio di quelle altre, ciò che gli uomini cercano nella religione. I Liberi Muratori, gli Spiritisti, i Teosofi, gli Occultisti, gli Scientismi cedettero d’aver trovato il surrogato infallibile del Cristianesimo. Ma codesti miscugli di superstizioni muffose e di cabalistica cariata, codesti guazzetti di razionalismo sciupato e di scienza andata a male, di simbolica scimmiante e di umanitarismo acetoso, codeste rattoppature malfatte di buddismo d’esportazione e di Cristianesimo tradito, contentarono qualche migliaio di donne a riposo, di bipedes asellos, di condensatori del vuoto e fermi lì.
Intanto, tra un presbiterio tedesco e una cattedra svizzera, si veniva apprestando l’ultimo Anticristo. Gesù, disse costui scendendo dall’Alpi al sole, ha mortificato gli uomini; il peccato è bello, la violenza è bella; è bello tutto quello che dice di si alla Vita. E Zarathustra, dopo aver buttato nel Mediterraneo i testi greci di Lipsia e l’opere di Machiavelli, cominciò a saltabeccare, con quella grazia che può avere un tedesco nato da un pastore luterano e sceso allora allora da una cattedra elvetica, ai piedi della statua di Dioniso. Ma benché i suoi canti fossero dolci all’orecchio, non riuscì mai a spiegare cosa fosse questa adorabile Vita alla quale si doveva una parte tanto viva dell’uomo qual è il bisogno di reprimere i propri istintivi bestia, né seppe dire in qual maniera il Cristo, il Cristo vero degli Evangeli, si contrappone alla vita, lui che vuol farla più alta e felice. E il povero Anticristo sifilitico, quando fu vicino a impazzire, firmò l’ultima sua lettera: il Crocifisso.
Eppure, dopo tanta dilapidazione di tempo e d’ingegno, Cristo non è ancora espulso dalla terra.
La sua memoria è dappertutto. Sui muri delle chiese e delle scuole, sulle cime dei campanili e del monti, nei tabernacoli delle strade, a capo dei letti e sopra le tombe, milioni di croci rammentano la morte del Crocifisso. Raschiate gli affreschi delle chiese, portate via i quadri dagli altari e dalle case e la vita di Cristo riempie i musei e le gallerie. Buttate nel fuoco messali, breviari ed ecologi e ritrovate il suo nome e le sue parole in tutti i libri delle letterature. Perfin le bestemmie sono un involontario ricordo della sua presenza.
Per quanto si faccia, Cristo è una fine e un principio, un abisso di misteri divini in mezzo a due tronconi di storia umana (...).("“Storia di Cristo” ( 1921)- Vallecchi Editore, Firenze).

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DANON Marcella ecopsicologa: "La bellezza delle idee" e "La virtù delle piccole cose"

da "LIFE Gate magazine" - rivista di ecocultura n° 30, sett.-ott. 2006

LA BELLEZZA DELLE IDEE DI MARCELLA DANON











Marcella Danon è psicologa, scrittrice, direttrice della "Scuola di ecopsicologia", redattrice della rivista “LIFE Gate magazine”, diretta da Simona Roveda, dove tutto ciò che si scrive (salute, ambiente, alimentazione, energie, cultura) ha una consistente, ragionata e documentata ‘allure’ di virtù e di esperienza.
Nelle pagine del n° 30 di “LIFE GATE magazine”, del settembre-ottobre del 2006, la dott.ssa Marcella Danon esprime “Il valore delle piccole cose” nella concretezza delle azioni quotidiane, come in simile occasione:
“Vale più una mano che tiene aperta la porta allo sconosciuto che sta passando pieno di pacchi che mille parole roboanti sull’amore per il prossimo a cui fa seguito un completo disinteresse per le persone più vicine”.

Ho chiesto alla Dott.ssa Danon di riportare diverse sue annotazioni, qui nel blog “Costruttori di bellezza”, poiché ritengo che siano dei piccoli capolavori di riflessione ed espressione, amore per la vita e per il prossimo. Lei scrive, a proposito di :









Indagine sullo scopo della vita: “Non si tratta di trovare risposte, quanto di porsi domande, di uscire dall’indifferenza, dalla estenuante sensazione che tutto ormai sia noto e scontato, di superare la passiva accettazione di visioni della vita indotte da altri – televisione, pubblicità, moda – per ritrovare la capacità di chiedersi “che cosa è davvero importante nella vita”, provando a rispondersi in prima persona, valutando autonomamente idee e stili di vita, confrontando diverse proposte e scegliendo quello che davvero ci risuona dentro, con autenticità”.


Riaprire gli occhi sul mondo: “Si acquista così la capacità di vedere la realtà nella sua unicità, momento per momento, e di provare stupore e meraviglia per il miracolo quotidiano dell’aver un tetto sulla testa, una tavola sempre imbandita, libertà di parola, salvaguardia dei diritti fondamentali…o anche semplicemente di avere gli occhi per vedere il colore dei fiori, la pelle per sentire la carezza del vento, un linguaggio comune per condividere emozioni ed esperienze. Tutte conquiste che la vita ha fatto per noi in centinaia di migliaia di anni!”.

Crearsi una scala di valori: “Quando la visione si allarga, quando scopriamo di non essere soli, di non essere isolati dal resto dell’umanità e dal resto della creazione, avviene una riorganizzazione spontanea dei valori, si comincia a cogliere l’importanza dei piccoli gesti, dimostrazione concreta e immediata del senso di compartecipazione, della fratellanza e sorellanza implicita nel fatto stesso di essere “qui e ora” in questo tempo e in questo spazio. Chiedetevi quali sono i vostri valori e metteteli in graduatoria. Poi aggiornate l’elenco ogni sei mesi.

Coltivare la gentilezza amorevole: “ ‘Metta’ la chiama la tradizione buddista, un atteggiamento di premurosità, benevolenza e affetto nei confronti di sé e degli altri che può essere sviluppato attraverso l’esercizio e la meditazione e che predispone la mente a vedersi in relazione agli altri e creare con gli altri interazioni armoniche e collaborative. Si sviluppa a partire dalla memoria, ricordando le sensazioni e le emozioni di gratitudine, gioia e affetto provate nei momenti migliori della propria vita e vivificando ed espandendo quello stato interiore attraverso il ricordo”.







Predisposizione all’ascolto del mondo: “ Si guarda con gli occhi e con la mente, ma si ascolta con le orecchie e col cuore. Sintonizzare il cuore sul mondo vuol dire aprirsi anche al sentimento – e non solo al ragionamento – vuol dire confrontarsi con quello che succede attorno a noi senza più fare finta “che non ci riguardi”. E’ proprio dal cuore che attingiamo la carica necessaria per entrare in risonanza con ciò che percepiamo come essere “altro” da noi per poi rimboccarci le maniche e decidere di fare, in prima persona, qualcosa di utile.

Mettere i valori al primo posto: “Dopo avere aggiornato, periodicamente, la propria scala di valori, si tratta di onorare il proprio sentire più profondo e sintonizzare la vita quotidiana sulla lunghezza d’onda desiderata. I Valori non vanno seguiti e messi in atto perché “è giusto fare così”, ma soprattutto per il piacere di farlo, perché la soddisfazione che si prova nel fare qualche cosa per gli altri si rivela maggiore di quella che si prova nel godersi qualche cosa da soli, magari a scapito di qualcun altro. Provare per credere”.













Nessun gesto è troppo piccolo: “La vita quotidiana offre innumerevoli occasioni di agire in modo attento e consapevole nei confronti degli altri. Ogni interazione dovrebbe sottendere la capacità di entrare in empatia con qualcuno – persona, animale, pianta o intero ecosistema che sia – e la disponibilità a dedicare qualche momento dal proprio tempo o delle proprie energie per qualche cosa che riguarda altri, direttamente, ma riguarda sempre anche noi, indirettamente, in quanto esponenti dell’umanità o anche semplicemente terrestri. Basta poco”.


Da cosa cominciare?: “Da quello che è più vicino, alla mano e al cuore. Dai piccoli gesti da mettere in atto in famiglia, col piacere di sorprendere e di andare oltre il consueto. Da piccole attenzioni sul lavoro o nella cerchia di amici. Da uno sguardo più attento nel quartiere o città in cui si vive, dove molti già si battono per cause giuste e possono aver bisogno di aiuto. Da una attenzione in più nei confronti di chi è straniero, disagiato, disadattato là dove noi siamo di casa. Sino a un impegno in cause più grandi in cui sentiamo di potere e volere dare un contributo”.

















Mi piace concludere questo breviario del come vivere bene, di Marcella Danon, con una sua particolare citazione sulla bellezza:”Non si tratta di cercare la luce fuggendo dal basso verso l’alto, ma di portare la bellezza dei valori e delle idee verso il basso. Il compito che abbiamo in questo momento su questo bellissimo pianeta verde e azzurro è quello di “spiritualizzare la materia”.

Grazie e complimenti a Marcella Danon.

Il sito di “LIFE Gate magazine” " è all'indirizzo:

http://www.lifegate.it/ – il portale di eco-cultura

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